E ci risiamo. Harmony Korine sfida se stesso (e sfida lo spettatore), giocando con la materiale videoludica che diventa cinema inqualificabile. Inqualificabile, dall'inizio alla fine. Anzi, senza inizio e senza fine. Non c'è narrazione, non c'è narrativa, in Baby Invasion. Supponenza, arroganza, sfrontatezza. La negazione diretta di cosa sia il cinema, ma anche la sperimentazione portata al suo massimo. Insomma, l'Harmony Korine contemporaneo, ormai abbandonata la linearità cinematografica diremmo canonica (dopo il sottovalutato Beach Bum) prosegue nell'estremizzazione del medium, frantumando ogni regola e ogni legge.
Per certi versi, Baby Invasion presentato Fuori Concorso a Venezia 81, segue e allunga la scia del precedente Aggro Dr1ft (risultando però meno potente), quel film impazzito girato con gli infrarossi, le telecamere termiche e altri espedienti tecnici da sturbo artistico. A proposito di arte: se Korine, da Gummo a Spring Breakers, ha rappresentato un certo sguardo del cinema indie americano, oggi è probabilmente tra i pochissimi ad essere fuori luogo e fuori binario da potersi considerare, davvero, indipendente.
Baby Invasion, una grande presa in giro?
Talmente indipendente, che Baby Invasion non ha nemmeno bisogno di una trama. Semplicemente, non serve nell'immaginario grafico escogitato dal regista, che ha strutturato il film tramite auto-produzione grazie alla sua società multimediale EDGLRD (e potrebbe essere visto come una specie di vetrina, in quanto produce, tra gli altri, anche videogioco). Il centro nevralgico, che non molla mai e anzi prosegue a briglie libere in un open world squilibrato e sanguinoso (siamo a Miami, of course), è l'omonimo videogioco sparatutto che dà il titolo all'opera.
Korine gira il film in prima persona, come se fosse un game da giocare on-line, di notte, in compagnia di un letto sfatto e del cibo spazzatura. I gamer, che pare sviluppino una certa dipendenza verso il gioco, si ritrovano ad impersonare un improbabile gruppo di mercenari, che usano come avatar dei volti di neonati per celare la propria identità (!). Il loro scopo? Entro un certo tempo, tra bonus e malus, devono fare mattanza dei ricchi bianchi, penetrando nelle loro ville.
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L'inafferrabile opera di un regista davvero indipendete
E poi? E poi basta. Una voce fuori campo fa strani riferimenti allegorici ai conigli, al vento, alla ricchezza, mentre attacca senza mai fermarsi la colonna sonora originale di Burial. Note house, hardcore, techno. Un miscuglio visivo e sonoro. Un trip da adolescenti brufolosi, il sogno del cinefilo più estremo. Eppure, sale l'incessante percezione che dietro Baby Invasion ci sia una sorta di presa in giro generale. Una pernacchia, uno sberleffo, un'illuminazione di ciò che un certo cinema non ha il coraggio di fare, di dire, di mostrare. Una presa in giro allo spettatore, infastidito e affascinato dalla vacuità di qualcosa che non esiste.
Invece, tra videoarte, intelligenza artificiale, videogames, Harmony Korine firma, con nevralgica e furbesca visione, un'altra pagina non convenzione di opere che, definiremo, post-cinematografiche. In mezzo, nel delirio inafferrabile, la sommessa metafora che rintracciamo, tra glitch, visioni e sfide da superare: e se Baby Invasion fosse un'accusa agli Stati Uniti d'America, al Capitalismo, alla società del profitto, della violenza e della armi? Forse. O Forse no. Sta di fatto, che quello di Korine è un altro folgorante esperimento. Che per fortuna non vedremo mai più. Cinque stelle, meritatissime.
Conclusioni
Cinque stelle, voto provocatorio? In parte. Oppure, l'unico voto possibile per un'opera(zione) fuori da ogni crisma, che gioca sul post-cinema agganciandosi prepotentemente al mondo dei videogiochi e dell'intelligenza artificiale. Harmony Korine con Baby Invasion compie un ulteriore passo verso la negazione dello storytelling, prendendosi letteralmente gioco degli spettatori.
Perché ci piace
- Tutto!
Cosa non va
- Tutto!