Dodici anni dopo la release di Titanic, James Cameron tornò al cinema con Avatar, un ambizioso progetto sci-fi su cui aveva già annunciato di essere al lavoro durante il press tour del film con Leonardo DiCaprio. L'autore di Terminator e Alien 2 è sempre stato attratto dal genere fantascientifico, che può infatti definirsi suo primo e adorato feticcio cinematografico, ma anche dalla tecnologia e dalle possibilità da essa offerte nell'evoluzione formale e strutturale della settima arte. All'epoca ha atteso 12 anni proprio per permettere (e finanziare e supervisionare) lo sviluppo tecnologico necessario e adeguato all'intelaiatura digitale del suo visionario next one, tenendo soprattutto conto del 3D e della trasformazione fisiologica della motion capture in performance capture. E alla fine Avatar ha visto la luce e il buio della sala, divenendo il film con il maggiore incasso della storia, scalzato solo per qualche mese da Avengers: Endgame dei fratelli Russo ma subito tornato in vetta alla classifica con una nuova e apposita release.
Nonostante l'indiscutibile successo commerciale e uno studiato hype montato ad hoc per oltre un decennio, comunque, la space opera di Cameron ha visto al tempo e vede tutt'ora due specifici schieramenti critici: chi lo ritiene un titolo rivoluzionario e seminale e chi invece pensa si tratti di una rilettura superficiale di Pocahontas, priva di reali idee narrative e solo appariscente guscio per uno spettacolo visionario fine a se stesso. In occasione della re-release di Avatar al cinema, a tre mesi dall'uscita di Avatar: La via dell'acqua, secondo capitolo dell'annunciata pentalogia del franchise, vogliamo allora domandarci in merito: c'è forse una verità più concreta nel mezzo di questi due poli di pensiero?
Il cuore di Avatar
Concretamente, il film di Cameron è di fatto una rilettura di genere della vera storia di Pocahontas, indigena della tribù powhatan vissuta nel XVII secolo e raccontata ai più piccoli nell'amato classico Disney. Alla casa di Topolino va riconosciuto il primato di averne sdoganato storia e figura in tutto il mondo, seppure romanzata all'eccesso, ma l'indigena poi divenuta cristiana rappresenta ideologie ben più ampie di una semplice storia d'amore, specie per quanto riguarda la difesa dell'ambiente, la protezione e la determinazione della propria identità, il valore di un affetto talmente ineluttabile da poter rompere qualunque barriera sociale o culturale, disintegrare ogni forma di stereotipo e fare davvero la rivoluzione.
In questo senso, per quanto concerne il cuore di Avatar, la vicenda di Pocahontas ben si adatta a essere ripresa e ripensata per essere in qualche modo stabile ossatura di un racconto spaziale fortemente ecologista, contro lo sfruttamento del pianeta e concentrato sulla salvaguardia della natura ma anche delle cosiddette civiltà native, critico per questo nei confronti di un forzoso e sconsiderato depauperamento culturale e paesaggistico dei territori invasi.
Mediante la storia di Jake_ e _Neytiri, Cameron tenta di mettere su schermo una riflessione cinematografica basilare sull'accettazione e il rispetto del diverso, tanto in senso umano quanto ecologico - pensando agli ecosistemi -, criticando l'impatto negativo del consumismo, del capitalismo e della globalizzazione con mire espansionistiche commerciali o politiche sull'economia ambientale e sul tessuto socio-sistemico delle zone occupate per essere distrutte e sfruttate. E lo fa nemmeno così in sottotesto rispetto al racconto dell'amore tra un invasore e un'indigena, assecondando e promuovendo in questo modo il potere della contaminazione tra popoli e della comprensione di usanze differenti, sottolineando la forza di un accrescimento personale e umano persino in grado di cambiare le sorti di una storia paradossalmente già scritta.
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L'estetica di Pandora
Quindi sì, nel suo principale nucleo narrativo, Avatar rappresenta una rivisitazione in chiave space opera di Pocahontas, ma non per questo significa che debba essere bistrattato intellettualmente come il Guido Anselmi felliniano dalla personificazione critica più onesta, fredda e spietata. Citando ancora 8 e mezzo, non sempre è necessario dire qualcosa per fare cinema, così come non risulta obbligatorio essere per forza di cose capiti. Pur lavorando nel mainstream e nell'intrattenimento, consapevole della sua sincera passione per il cinema come forma di passatempo in aggiunta al suo alto valore comunicativo e artistico, Cameron tenta comunque di inserire un messaggio in un'opera che, per sua natura, nasce soprattutto come grande e riformativo spettacolo visivo, "rubando" dalla storia e dalla cultura popolare per inventare qualcosa di diverso e personale, con una sua chiara identità stilistica e cinematografica.
Per quanto funzionali e ragionate, nonché semplici e dirette e per questo subito comprensibili, la verità è che narrativa e drammaturgia di Avatar rappresentano un elaborato pretesto per innescare confronti e conflitti interni al racconto e mostrare e ostentare tutto l'immenso lavoro tecnologico ed estetico fatto su flora, fauna e lingua di Pandora.
Cameron ha infatti creato un intero ecosistema planetario dal nulla, immaginandolo su carta per poi costruirlo interamente in digitale, una pianta e un animale dopo l'altro. Il film rappresenta una delle più mirabolanti e complesse commistioni tra live-action e digital animation mai apparse sul grande schermo, capace di spingere oltre il punto di non ritorno il medium stesso nella sua forma espressionistica tecnologica più avanzata. Basti pensare a come il regista e il produttore Jon Landau siano riusciti a far evolvere la motion capture in performance capture ispirandosi ai concerti di Madonna: "Abbiamo pensato: se lei può ballare e cantare per un intero concerto con un microfono davanti alla faccia, perché non sostituirlo con una piccola telecamera per far recitare gli attori? Così da catturare le immagini in tempo reale e reindirizzarle immediatamente al comparto degli effetti visivi per ri-elaborarle frame by frame, poro dopo poro, e creare qualcosa di estremamente verosimile e reale".
Il riferimento è ovviamente ai Na'vi, popolazione autoctona di Pandora con sembianze umanoidi ma alti quasi tre metri, blu e luminescenti. Essendo essenziale renderli il più espressivi e credibili possibile, ai limiti della sospensione dell'incredulità, l'autore attese a lungo il modo più efficace per registrare e rielaborare in digitale la performance di un attore, così da trasformarlo poi con i VFX in un Na'vi. E ci riuscì e sorprese, confezionando un prodotto a tutti gli effetti innovativo per scopo e portata, talmente sorprendente per impatto quanto chiaro nel suo contenuto intimista e ambientalista da aver spinto Cameron a volerne di più, ad espandere ulteriormente il vasto mondo di Pandora per esplorare ancora più a fondo e con spinta sempre più innovativa il potenziale evolutivo di un franchise d'autore adagiato sugli allori del successo e pronto a occupare il prossimo decennio cinematografico. Se Avatar è ancora oggi un rivoluzionario Pocahontas nello spazio, La via dell'acqua e i successivi capitoli dovranno ora dimostrare la propria indipendenza narrativa e muovere passi più coraggiosi - anche se incerti -, così da mettere in chiaro ancora una volta le cristalline ambizioni di un'opera che non ha ancora superato le aspettative del suo artista ma pronta a entusiasmare nuovamente il pubblico.