Una delle cose più interessanti della visione di Nope, l'ultimo film di Jordan Peele, è stata quella di constatare ancora una volta, la terza (e tre indizi fanno un fatto dice qualcuno), come il regista newyorkese sia, prima di tutto, una mente tecnica e critica superiore rispetto ai suoi colleghi nordamericani. Lo è per l'utilizzo del cinema di genere, per come riesce a fonderlo alla perfezione con quello più commerciale (dando prova di come, fondamentalmente, le distinzioni servono soprattutto a noi miserabili teorici) e per la sua capacità di ampliare costantemente la propria visione artistica, continuando, parallelamente, a scavare nelle tematiche civili e sociali che gli interessano. Tematiche che in fin dei conti della sua visione artistica sono un po' la base e nonostante questo non sono mai un peso per la sua creatività, piegata solo al medium. Un cerchio perfetto di una mente superiore.
Nel suo caso è ancora presto per tirare delle somme definitive (gli auguriamo una carriera lunga e felice), esercizio che, invece, può esser fatto per l'operato sullo schermo di un altro genio, come lui intrattenitore ma, soprattutto, afroamericano e, come lui e più di lui, attento a rimanere nel cerchio perfetto sopra descritto. Su di lui qualcosa, purtroppo, si può dire, perché si è conclusa Atlanta (trovate tutte le stagioni in streaming su Disney+), la sua creatura prediletta nonché uno degli eventi seriali più complessi, ricchi e importanti degli anni duemila.
È finita, è finita benissimo, è finita anche se ne abbiamo ancora bisogno (eccome se ne abbiamo), è finita e forse qualcosa di così intelligente, libero, attento al passato, al futuro e allo spettatore e, soprattutto, in sintonia tra tutte le sue componenti, non ci sarà più. Almeno a breve.
Non disperiamoci però, c'è il cinema di Jordan Peele e c'è la promessa che Donald Glover tornerà presto a farci visita, anche se non sarà più nei panni di Earn.
Sulle spalle dei giganti
Per dei motivi totalmente legati ad un'ignoranza di fondo di chi scrive, è soprattutto un meraviglioso caso che tra il 2016 (prima stagione di Atlanta) e il 2017 (anno di uscita di quel gioiello di Scappa - Get Out) hanno fatto capolino nei due formati principali dell'audiovisivo una nuova generazione di intellettuali e creativi afroamericani come forse non se ne sono mai visti. O almeno dal post Spike Lee? Facciamo almeno dal post Spike Lee, dai. Forse sono persino superiori a lui per certe cose.
A onor del vero sia Glover ( o Childish Gambino) che Jordan Peele, attraverso due percorsi artistici differenti, avevano già cominciato e portato avanti un certo tipo di discorso legato alla comunità nera nell'America del ventunesimo secolo. Rimane il fatto che un'esplosione nel nostro medium preferito così ravvicinata di una poetica così simile, ma allo stesso tempo così esclusiva e personale, e di tali dimensioni, sia in termini di efficacia analitica che di padronanza del mezzo, è legata a dei motivi che forse, realmente, esulano dalla cosiddetta eredità culturale.
Fenomeni straordinari come la blaxploitation degli anni '70 o la missione del già citato cineasta di Atlanta (guarda caso) costituiscono dei precedenti fondamentali, in grado di dare linfa vitale ad un movimento che però, anche a causa loro, spesso è stato controproducente per se stesso. Ha infatti molte volte vissuto dei suoi stessi limiti, dandola vinta ai mostri che voleva combattere, decidendo di rivolgersi al "suo" pubblico (che è un termine orribile ma tant'è) ai danni pure del testo che adoperava per comunicare. Oppure facendo esattamente l'opposto, andando incontro ad una, a tratti, goffa appropriazione di generi e linguaggi non suoi, animato da un sempiterno spirito di rivalsa nei confronti di chi storicamente, anche con quegli stessi generi, lo ha oppresso. Ma si tratta di un discorso lungo, complesso e che meriterebbe un articolo.
Quello che interessa qui sottolineare è come questo nuovo gruppo di intellettuali contemporanei, giovani e straordinariamente consapevoli, abbia fatto sue le lezioni, i messaggi, la storia e i difetti dei giganti che lo hanno preceduto e sia riuscito ad andare avanti, a superarli. Lo ha fatto ampliando il raggio partendo dall'autoanalisi, affrontando il senso di frustrazione generazionale per esorcizzarlo e riuscire a guardare oltre. Puntando ad uno sguardo nuovo e ad uno slancio verso il mondo esterno e verso l'uomo del futuro.
Atlanta è un esempio straordinario di immagazzinamento di malessere e fermento storico e culturale fuso con un'idea di media televisivo rinnovato per dar vita a qualcosa in grado di superare sia l'uno che l'altro.
Atlanta: la migliore comedy degli ultimi anni ci racconta il rap e la cultura black come mai prima
Serie contenitore
La serie di Glover, o dei Glover brothers e del regista (straordinario regista) Hiro Murai e che poi è diventata la serie anche di Brian Tyree Henry, Zazie Beetz e Lakeith Stanfield, è un trattato antropologico contemporaneo sulla realtà afroamericana, che nasce da un percorso personale (il fulcro è sempre la black music), ma è anche un movimento di emancipazione di un giovane gruppo di artisti, riuscito a padroneggiare e a sfruttare il format seriale nella sua accezione più "tecnica" e, perché no, di entertainment.
Atlanta è un titolo che analizza le idiosincrasie del proprio mondo di appartenenza. Le ribalta, le parodizza e le destruttura, ma sempre con la cura di non alterarne il senso, anzi, conservandolo per poi esaltarne gli aspetti più bigotti, chiusi e ottusi. Fa saltare le sicurezze, sfonda le pareti e poi lo proietta nella realtà moderna.
È una creatura fluida, è una creatura sensuale che può essere goduta su più livelli, che può essere vista come legata o no. È una creatura libera perché vuole liberare lo spettatore e i suoi protagonisti, imprigionati nelle loro insicurezze personali, ma, soprattutto sociali, ereditate. In un certo senso si libera anche dal suo stesso linguaggio, sperimenta col mockumentary, gioca col grottesco, filtra con la fantascienza, progetta pensando alla commedia, ma mette in scena guardando all'horror. Sorprende continuamente, sperimenta sempre e rimane sempre fedele a se stessa.
La cosa che più conta è la sua identità in quanto lavoro audiovisivo e forse è proprio questa sua chiarezza di fondo che le ha permesso di racchiudere così tanto al suo interno senza mai (e fidatevi, non è assolutamente esagerato) correre il rischio di perdersi.
La stagione finale, in ogni suo aspetto, ne è testimonianza.
Glover & co. hanno deciso di chiudere perché si sono resi conto di non poter continuare a dare la giusta attenzione ad un titolo che invece ne richiede molta. Hanno quindi colto l'occasione di salutare dopo essere tornati ad Atlanta (città) in seguito allo splendido trip (in tutti i suoi aspetti) in giro per l'Europa.
Un modo anche per tornare a se stessi, alla loro famiglia allargata, alle origini della serie, fare un sunto per poi chiudere a loro modo, in sintonia con lo spirito che li ha mossi all'inizio.
Atlanta 4, la recensione della stagione finale: See You, Space Nigga
Closing time, every new beginning...
Alla conclusione di una serie evento come Atlanta, sperando che anche nel nostro Paese possa essere vista il più possibile, la cosa che più colpisce è rendersi conto di trovarsi ad analizzare un lavoro che è stato in grado di segnare un'epoca e di lanciare un segnale fortissimo. Nonostante le poche stagioni, il modo in cui sono state rilasciate, i limiti internazionali di appeal o di distribuzione.
Si tratta di qualcosa che è riuscito a connettere il mondo intero, rendendo la città della Georgia uno stato dell'anima, un centro ideale, un archetipo di discussione, incontro e scontro culturale, di psicoanalisi freudiana per un'intera comunità. Un portale accessibile a chiunque abbia voglia di farsi una domanda sul mondo in cui vive, anche se è nato nel vecchio continente, oppure abbia voglia di vivere una storia profonda di amore e amicizia oppure, ancora (ma questa è una cosa riservata a noi cinefili e/o facenti funzione di "esperti"), soffermarsi sulle potenzialità inesplorate del linguaggio seriale.
Quattro stagioni per consumare un'eredità e crearne un'altra. Atlanta è stata un mood, un modo di fruire qualcosa, di pensarla e di ripensarla, di affezionarcisi ed è bello che l'ultimo pensiero sia stato proprio in questo senso. Ci siamo voluti bene e siamo stati grati di esserci incontrati.