Aria: la docu-serie RaiPlay sugli italiani in lockdown, l'intervista a produttori e registi

La nostra intervista ai produttori e registi di Aria, la nuova serie documentario disponibile su RaiPlay dal 29 dicembre 2020, che racconta i mesi di lockdown di alcuni italiani, donne e uomini comuni ma speciali, sparsi per il mondo.

213
Aria: un'intensa immagine della serie

Aria è la nuova docu-serie disponibile su RaiPlay dal 29 dicembre 2020 che si pone il difficile e complesso compito di raccontare la storia di alcuni italiani nel mondo durante la prima ondata della pandemia di Covid-19. Ciascuno dei protagonisti ha portato l'obiettivo dello smartphone, o di altri mezzi a loro disposizione, nella nuova quotidianità che stavano vivendo: in famiglia, sui luoghi di lavoro e di vita, seguiti dagli autori del progetto per tutti i difficili mesi che vanno da marzo a giugno 2020. Da un villaggio rurale in Kenya alla solidale Napoli, dalla Cina, primo epicentro del contagio, al complesso Brasile, non solo luoghi, ma condizioni, anime, persone che vivono questo difficile momento, tutti colpiti da quell'incertezza e spaesamento che ci hanno portato via le abitudini di anni e molte delle nostre consapevolezze, in una nuova vita dove siamo tutti più distanti nello spazio, ma non nel pensiero.

Aria Foto
Aria: un'immagine della serie

Abbiamo partecipato alla conferenza di presentazione di questo particolarissimo progetto dove i registi Andrea Porporati, Costanza Quadriglia, Daniele Vicari e il medico Daniele Sciuto (a rappresentanza dei protagonisti di questa serie) hanno risposto alle domande dei giornalisti spiegando le intenzioni che hanno messo in moto questa realizzazione che unisce l'intento di raccontare non solo un periodo di storia umana, ma le singole vite ed emozioni. I proventi di questa docu-serie, dal profondo stampo corale, saranno devoluti all'istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani.

Un nuovo formato per lo streaming

Aria 104
Aria: un'immagine della serie di RaiPlay

Maurizio Imbriale, vice direttore di RaiPlay ha così parlato di Aria, del suo format adattato ad una visione che maggiormente si addicesse ad una piattaforma streaming: "Rai Play è una nuova realtà editoriale che ha iniziato a produrre documentari e fiction per la Rai già da qualche tempo. Aria racconta una realtà molto speciale e molto importante perché parla di quello che stiamo vivendo tutti noi da marzo. Già dalle prime visioni siamo rimasti colpiti dalla grande carica di umanità che traspare dalle storie. La serie ha un respiro molto più largo e internazionale, dando voce a quegli italiani dimenticati dai media che vivono all'estero e che si sono ritrovati travolti da questa pandemia; la sua particolarità è che il retaggio che ne scaturisce è quello di raccontare delle storie non artificiose, dopotutto siamo nella realtà documentaristica." Imbriale ha continuato il suo discorso aggiungendo: "La serie racconta delle vicende che hanno un inizio e una fine. C'è un desiderio di rinascita che è molto forte e per questo abbiamo deciso di non pubblicare il docufilm intero nei suoi 120 minuti, ma di utilizzare una formula che è quella della miniserie televisiva. La fruizione dei prodotti all'interno delle piattaforme avviene in maniera diversa, questo permette sia il binge-watching che la fruizione in varie fasi."

Da Fuocoammare a Strane straniere: 5 documentari italiani da (ri)vedere

Un lavoro complesso

403
Aria: una foto di scena

Aria è un documentario corale, composto da più voci indipendenti che unite sono in grado di raccontare sotto molteplici punti di vista un'unica realtà globale: il disagio, lo sconforto e le aspettative di un periodo di crisi. Andrea Porporati ha raccontato di come la realizzazione di questa serie non sia stata per nulla semplice: "Ci siamo ritrovati in lockdown e ci siamo ingegnati per capire come riuscire a fare il nostro lavoro in quella situazione, come poter raccontare storie. Attraverso media e giornali abbiamo cercato persone per narrare attraverso di loro e con loro questo periodo. L'unico modo era chiedergli di riprendersi, non sapevamo se avrebbe funzionato, ma alcuni di loro si sono innamorati di questo modo di raccontarsi. Al termine della realizzazione ci siamo resi conto che il finale lascia una sensazione di provvisorio lieto fine che non era stato previsto." Continuando a rispondere alle domande ha poi aggiunto: "Queste non sono storie inventate, sono pezzi della loro vita. I nostri protagonisti hanno vissuto un momento finale di rinascita, di presa di coscienza, di ritorno a godersi il tempo che scorre. Queste persone ci hanno offerto il loro punto di vista in prima persona e questo dà al racconto un respiro collettivo e globale che noi non saremmo riusciti a dare con una sceneggiatura pensata a tavolino; tutti vanno d'accordo senza un direttore d'orchestra."

406
Aria: un'immagine tratta dalla docu-serie di RaiPlay

Oltre alle difficoltà organizzative, ce ne sono state anche di tecniche ed è sempre Porporati a raccontarcele: "Avevamo tantissimo materiale, volevamo spingerci in un racconto corale, ma per raccontare una coralità dovevamo trovare un filo del racconto. Qui quel filo non c'era ma c'erano delle intenzioni. Il montaggio è durato molto a lungo con tre montatori fissi. È andato avanti da luglio fino a ottobre e, ad un certo punto, abbiamo cominciato a comporre la musica, ma non riuscivamo perché non trovavamo il bandolo della matassa. Alla fine siamo riusciti nell'impresa, perché abbiamo capito che la musica non serviva a raccontare qualcosa, ma semplicemente ad accompagnare. Credo che alla fine sia stato un lavoro di scoperta; il tentativo era cercare di dare a ognuno il giusto peso alla sua voce in modo che alla fine tutte le voci si componessero tra loro."

Le 20 serie TV più significative del 2020, da The Crown a The Mandalorian

Un progetto sociale importante

408
Aria: Daniele Sciuto e sua moglie

Daniele Sciuto è un medico italiano che lavora in Kenya, per la precisione a Samburu County, ed è uno dei protagonisti della serie. Durante l'incontro stampa ha parlato delle difficoltà del raccontare la sua esperienza in un momento delicato ma di grande concitazione: "Quando sono stato contattato era aprile e qui in Kenya eravamo in un momento terribile, pensavamo che il coronavirus non sarebbe mai arrivato e invece lo ha fatto. Ero stato contattato da tanti giornalisti per avere un parere sul dramma che si sarebbe potuto svolgere in Africa se fosse arrivato il virus. All'inizio avevo declinato anche questa offerta perché temevo, come in altre situazioni, la spettacolarizzazione di tale evento, poi ho capito che non era così, che si voleva raccontare storie di Italiani in questo periodo. Devo dire che non mi sono innamorato di questo modo di raccontarmi. È stato molto faticoso, abbiamo avuto mesi difficilissimi per cercare di formare terapie intensive e personale, e filmare mi metteva molto in difficoltà. È stato duro e faticoso, ma mi sono innamorato, invece, del progetto sociale che questo documentario andava a incarnare. Mi sembrava portasse a un livello più profondo l'analisi di questa pandemia." Sulla fatica di raccontare e di raccontarsi si è espresso anche Daniele Vicari: "Quando è scattato il lockdown, ci siamo detti subito che era il momento di prendere in mano il nostro mestiere. È una fatica raccontarsi e questa fatica raccoglie il senso del cinema documentario."