Tra favola nera e spinte neorealiste Animali selvatici, in sala dal 6 luglio, ci porta nel cuore dell'Europa, in quella babele di lingue ed etnie che è la Transilvania, territorio conteso in passato tra Ungheria e Romania, e dove oggi coabitano tedeschi, rumeni e ungheresi. Dirige Cristian Mungiu che torna così in sala con un film sull'Europa, i sovranismi, l'amore, la politica e piccole comunità tribali alle prese con l'ostinata difesa di uno stile di vita che sentono minacciato da qualsiasi elemento percepito come estraneo. In questo caso la minaccia è rappresentata da un gruppo di lavoratori cingalesi, arrivati in paese per prestare manodopera nella fabbrica di pane dove nessuno dei locali vuole andare a lavorare. Viene così a sgretolarsi una situazione di pace apparente mentre gli adulti del villaggio cadono preda delle loro paure più ancestrali che riversano sugli "stranieri". Su tutto soffia il vento dei nazionalismi e i conflitti sopiti esplodono generando una grande confusione.
Una storia vera
L'evento scatenante della storia raccontata in Animali selvatici è un fatto realmente accaduto alla vigilia della pandemia da Coronavirus. Siamo nell'inverno del 2020, "in un piccolo villaggio della Transilvania, abitato principalmente da ungheresi", dice Mungiu: "La storia nella realtà non è molto lontana da quella che vediamo nel film, ed è quella di una fabbrica locale di pane a corto di manodopera che non riuscendo a trovare lavoratori del luogo si è rivolta all'esterno. Sono arrivati quindi dei lavoratori dallo Sri Lanka" e tanto è bastato per fomentare sentimenti xenofobi da parte della comunità locale. "Poi c'è stata una grande riunione all'interno del municipio, molto simile a quella che vediamo in una scena del film, qualcuno l'ha registrata e il video è finito su Internet provocando un enorme scandalo, prima in Romania e poi anche nel resto del mondo".
Mungiu esplora quindi il cortocircuito che esplode in un territorio da cui ci si attenderebbe solidarietà, "normalmente ci si aspetterebbe che una comunità abitata da diverse minoranze mostrasse maggiore empatia nei confronti di chi rappresenta una minoranza ancora più piccola" (in questo caso i lavoratori cingalesi, n.d.r.), ma è accaduto esattamente il contrario e suona parecchio paradossale "in una nazione come la nostra in cui la tendenza è quella di lasciare il paese e spostarsi a ovest per cercare una vita migliore".
Animali selvatici, la recensione: Mungiu affronta il tema del razzismo e la xenofobia
Le storture della globalizzazione
Il reale rimane la principale fonte di ispirazione, perché ciò che lo attira di una storia "è la potenzialità di parlare a livello globale, di discutere di noi come persone, esseri umani, di come siamo, del perché agiamo nel modo in cui agiamo e delle grandi differenze tra ciò che diciamo è quello che effettivamente pensiamo", ed è quello che succede anche in questo film.
Con Animali selvatici Cristian Mungiu riflette sulle storture della globalizzazione e parla di populismo come di uno dei suoi effetti più immediati; quando è andato a documentarsi di persona per cercare di capire effettivamente come stessero le cose parlando sia con la proprietaria della fabbrica che con i lavoratori stranieri, ha trovato "una comunità poco aperta al cambiamento, che voleva continuare a seguire le proprie tradizioni, abitudini e consuetudini anche da un punto di vista religioso, una comunità racchiusa all'interno di un piccolo villaggio che temeva l'arrivo di altre persone; per loro non si trattava di discriminazione contro qualcuno in particolare, ma semplicemente di voler continuare a conservare il proprio stile di vita. È una situazione comune a molte piccole realtà di questo tipo che hanno difficoltà ad adattarsi nell'immediato al cambiamento e a capire cosa sia effettivamente l'Unione europea e perché venga a dirti che devi cambiare".
La rappresentazione del subconscio
Lo definisce un film che "parla di ipocrisia e verità e della grande differenza fra ciò che l'essere politicamente corretto ci insegna a dire pubblicamente e quello che realmente pensiamo. Ma è anche una storia sulla fine della democrazia così come la conosciamo", e di una cosa è fermamente convinto: o si investe sull'educazione attiva di un popolo alla democrazia, o si finirà per assistere a quello a cui stiamo assistendo oggi, "un mondo fatto di populismi e ipocrisia". Un film oscuro e profondamente stratificato dove il "villaggio fantasma" messo in scena da Cristian Mungiu "rappresenta il nostro subconscio, ed è il motivo per cui ad esempio è circondato da una foresta buia. Sintetizza quella parte del cervello in cui risiede il nostro lato animale, quello che tende a combattere per la sopravvivenza e a soffocare l'empatia, è un qualcosa di cui dobbiamo prendere coscienza per addomesticarlo. Troppo spesso tendiamo a pensare che il male sia al di fuori di noi, ma tante volte invece, è proprio dentro di noi".