Più che un documentario è uno schizzo fatto a matita di una storia lunga che si svolge tra Italia, Belgio e India. Ecco come il regista Andrea Papini definisce il suo Fili invisibili - Storia minima della famiglia Bioni, piccola produzione firmata dalla Marechiarofilm di Antonietta De Lillo e da Immagini, che sarà per il momento solo al cinema Aquila a Roma e al Palestrina di Milano, a partire dal 27 febbraio prossimo. I fili invisibili che danno il titolo a questo lavoro delicato sono quelli che uniscono i membri della famiglia Bioni; Roberto, Elena, che nel 1993 si trasferisce con la primogenita in India e sposa Baba Ji, con il quale ha tre figli, e il fratello Manolo, maestro di sci che invece si lega sentimentalmente ad una ex allieva belga, dividendo la propria vita tra Bruxelles e il comune piemontese dove lavora, con sommo divertimento della piccola Clara e del fratello adottivo etiope, Alexandre. Il mondo intero sembra racchiudersi in questa famiglia che, grazie alle più svariate esperienze di vita, ha toccato quattro dei cinque continenti della Terra, dall'Africa dove papà Lino aveva combattuto la Seconda Guerra Mondiale, all'India, passando l'Europa ed il Sud America, nella fattispecie l'Argentina dove Manolo nasce nel 1951. Attraverso le avventure dei Bioni, dunque, si può raccontare in maniera affettuosa i cambiamenti che la nostra collettività sta facendo, piccole e grandi trasformazioni che sempre di più ci parlano di una società multietnica in cui la diversità di ognuno e l'uguaglianza in quanto esseri umani sono i valori da difendere strenuamente. Ne abbiamo parlato questa mattina proprio con il regista e con la produttrice Antonietta De Lillo, che abbiamo incontrato a Roma.
Signor Papini, cosa significa per lei questa piccola opera? Andrea Papini: Mi ha permesso di sperimentare una certa libertà creativa, anche grazie all'incontro con una collega come Antonietta. Oggi le nuove tecnologie ci permettono di esprimerci con poco, senza sottoporsi ad una trafila lunghissima e a dei passaggi umilianti per finanziare il proprio lavoro. Se si potesse lavorare così sempre sarebbe una meraviglia.
Anche se le difficoltà sono all'ordine del giorno...Ho dedicato tanto tempo al cinema indipendente. Ho fondato Microcinema, un network digitale da cui poi sono uscito nel 2009, quindi conosco bene i problemi. A parte i soliti canali che sono sempre chiusi, c'è mancanza di un mercato e se non trovi anche solo i diecimila euro per i costi di editing si prosciuga l'acqua. Davvero devo fare i complimenti a quelli che riescono. Per ottenere un minimo di attenzione bisognerebbe avere già successo. Se Fili invisibili vincesse sei Oscar, allora otterremmo dei finanziamenti. Beh, grazie tante. Noi comunque i canali li battiamo tutti, sfruttando, come detto, le grandi possibilità dello sviluppo tecnologico.
Cosa vi aspettate dall'uscita in sala?
Che ci possa essere uno scambio col pubblico. Noi puntiamo sul passaparola, con la speranza che la curiosità per questo strano prodotto possa propagarsi.
Messo da parte il legame d'amicizia che la unisce alla famiglia Bioni, perché ha scelto di raccontare proprio la loro storia?
Perché sono i più eccentrici tra i miei amici e poi l'intreccio era credibile e mi permetteva di raccontare storia personale e grandi eventi. La loro è una vicenda che abbraccia davvero tante generazioni. Attraverso l'esperienza del padre ho potuto parlare delle tragiche conseguenze della guerra. Poi sono passato alle mode, come ad esempio quella di andare in India per trovare sé stessi. I Bioni ci dicono che c'è una chance per tutti, che un'altra idea di famiglia. E' un messaggio che valeva la pena dare.
Come ha lavorato?
Con una piccola telecamerina digitale, senza neanche usare un microfono. Ho cominciato da Elena, che non vedevo dal 1993, anno in cui si è trasferita in India. Poi ho fatto un salto a Bruxelles da Catherine, la moglie di Manolo. Per un certo periodo ho dovuto smettere, perché stavo ultimando il mio film, La misura del confine, poi ho ripreso tutto il materiale e mi sono accorto che era buono. I fuochi erano a posto e se alcune cose non erano proprio precise, le ho lasciate inalterate. A quel punto mi sono affidato al mio storico montatore, Maurizio Baglivo, e ho finito il film. La sensazione era che non avrei davvero potuto fare di meglio con una struttura produttiva più grande. Cosa ci avrei fatto con una troupe vera? Avrei solo tolto spontaneità a quello che vedevo. La forza di questo film è questo mix tra casualità e professionalità.
Loro hanno la grande capacità di andare d'accordo. Forse per contrapposizione con la figura di questo padre che invece non era in grado di accettare gli errori degli altri. Basta pensare che la casa di Manolo ad Alagna è un porto di mare, aperto a tutti.
Signora De Lillo, ci può raccontare l'incontro con Andrea e con il suo film? Antonietta De Lillo: Io sono casualmente inciampata nel lavoro di Andrea, che conosco da tempo. Una mia collaboratrice me lo aveva segnalato e ho deciso di chiamarlo. Al di là della semplicità della storia, il racconto mi portava davvero dentro e come spettatrice mi sono sentita a mio agio. In qualche modo sentivo che Andrea era solo e allora ho pensato a cosa avrei desiderato se fossi stata al suo posto, mi sono detta che avrei cercato qualcuno che potesse occuparsi di me. E l'ho fatto.
Qual è il suo pensiero su quanto detto da Andrea?
Andrea ha dipinto una realtà esistente, vera. Noi però dobbiamo andare oltre e questo significa essere coscienti che i prodotti non sono tutti uguali, che c'è bisogno del giusto pubblico e di canali diversi da sfruttare. Io ad esempio spero nelle vendite all'estero, nella trasmissione in tv tematiche. Confido in internet e nelle varie piattaforme che si stanno sviluppando sempre di più. Bisogna essere innovativi, creativi e rimboccarsi le maniche. Il cinema non può essere una montagna russa in cui si insegue il successo per forza. Cambiamo lo sguardo e creiamo tanti pubblici diversi.