Completamente ristabilitosi dopo il brutto incidente in motocicletta di qualche mese fa, Kim Rossi Stuart si presenta in gran forma alla conferenza stampa di Anche libero va bene, film che segna il suo debutto alla regia, una toccante opera prima sui drammi intimi di una famiglia allo sbando, raccontata attraverso lo sguardo innocente di Tommi (il bravissimo Alessandro Morace, per la prima volta sullo schermo). Emozionato e pieno d'entusiasmo, il trentacinquenne attore romano, che del film è anche sceneggiatore ed interprete, ci racconta come si è immerso in questa sua nuova avventura che lo porterà venerdì nelle sale italiane e, tra due settimane, sulla passerella del Festival di Cannes, dove presenterà il film alla _Quinzaine des Rèalisateur_s.
Perché ha scelto di trattare il tema dell'infanzia per il suo debutto da regista? Kim Rossi Stuart: Mi piace fare le cose con ordine ed essendo io un bambino dal punto di vista registico ho voluto partire da un bambino vero per il mio primo film. Inoltre, avevo voglia di tornare a guardare il mondo dal punto di vista dell'infanzia, un periodo fondamentale della nostra vita che non dovrebbe mai essere perso di vista. In fase di sceneggiatura, alla quale hanno partecipato anche Linda Ferri, Federico Starnone e Francesco Giammusso, abbiamo subito messo a fuoco che tipo di bambino volevamo raccontare, ma ad un certo punto è la storia che ha comandato. Non volevamo parlare di un'infanzia particolarmente agiata o spensierata, ma eravamo concentrati su due genitori che rendessero problematico questo particolare periodo della vita. Abbiamo pensato, perciò, a due genitori complessi e contraddittori, evitando di cadere negli stereotipi e nella classica divisione tra buoni e cattivi.
Lei interpreta il ruolo di un padre, abbandonato dalla moglie, che si ritrova, tra debiti e frustrazioni lavorative, a dover allevare due figli piccoli, senza forse esserne capace. Come giudica questi genitori così irresponsabili ed infantili, che costringono i loro bambini a diventare grandi troppo in fretta?
Abbiamo cercato di costruire personaggi attuali, con problematiche moderne. Ho provato a seguire ed amare questi due genitori, andando in profondità anche nel descrivere le loro personalità fortemente problematiche, che non possono essere definite negative tout court. Tutta la storia nasce dalla presenza/assenza della madre, un personaggio che non apostroferei come superficiale, ma piuttosto complesso, una donna con nevrosi e problemi profondi, che quando crolla in questo suo baratro personale non può fare altro che scappare dalle responsabilità. Il padre è, invece, un personaggio più lineare, più decifrabile nelle sue fragilità, nei suoi meccanismi di proiezione molto comuni. L'infanzia dei loro bambini è sicuramente dura e complicata, ma non è infelice, e perciò non mi sento di dire che questo modello di genitori sia totalmente negativo.
Ad un certo punto del film, al suo personaggio scappa una bestemmia.
Non è una bestemmia provocatoria, ma profondamente cristiana; fa parte del percorso del protagonista, un uomo che, in quel momento, si trova sull'orlo del baratro e perde il controllo, la fiducia in sé stesso, nel mondo che gli sta intorno, una fiducia che è sinonimo di fede. Quella bestemmia può essere vista come un grido di dolore e sarà soltanto il figlio, tornato da lui dopo essere stato praticamente cacciato di casa, a dargli il la perché riacquisti quella fiducia in sé stesso che sembrava ormai aver perduto.
Perché ha scelto di essere anche interprete del suo film?
Non avrei voluto assolutamente recitare nel mio primo film, mi ero imposto di non farlo perché volevo immergermi in un'esperienza di regia pura. Poi l'attore che doveva interpretare il ruolo di Renato si è dissolto praticamente nel nulla, poco prima che cominciassero le riprese, e ho dovuto mettermi in gioco, acquistando forse, per questo, più coraggio. Nonostante l'agio delle undici settimane di riprese, mi sono ritrovato con dei ritmi serratissimi. La rapidità era una cosa fondamentale e il fatto di non dover spiegare il personaggio ad un altro attore è stata sicuramente una scorciatoia.
Ne Le chiavi di casa, di Gianni Amelio, lei era un padre alle prese con un figlio autistico. Quanto le è stata utile quell'esperienza nella lavorazione del suo film?
Avevamo già scritto parte della sceneggiatura prima che cominciassero le riprese del film di Amelio. Accettai di interpretare Le chiavi di casa anche per spiare il suo modo di lavorare con gli attori più piccoli, che tanto mi aveva colpito in un suo precedente lavoro, Il ladro di bambini. Il film di Amelio, però, è stata un'esperienza estrema, perché il protagonista era, appunto, un ragazzino autistico e tutti andavamo dietro le sue invenzioni estemporanee, con una sceneggiatura costruita essenzialmente in base alle sue improvvisazioni. Per il mio film le cose sono andate diversamente, anche se i bambini non hanno mai avuto una sceneggiatura ben precisa, ma arrivavano a dire con naturalezza esattamente quello che avevamo pensato e scritto per loro. E' stata una bella esperienza lavorare con Alessandro Morace, un bambino che non aveva mai fatto l'attore, ma talmente bravo che gli elettricisti sul set hanno cominciato a chiamarlo "Robert De Niro". Ad un certo punto, quando ha cominciato a prendere coscienza della sua bravura e si è creato una corazza da attore, è diventato più difficile dirigerlo e ho dovuto lavorare un po' per fargli perdere quelle sovrastrutture che si stava creando.
Come ha trovato il suo piccolo protagonista?
Dopo mesi di ricerca trascorsi tra le scuole romane, le piscine di nuoto e i campi di calcio. Alessandro non si è palesato subito, ma è venuto fuori riguardando dei provini, quando eravamo già con l'acqua alla gola per le scadenze che si avvicinavano. Lui mi ha meravigliato perché ha voluto ripetere questa specie di improvvisazione richiesta durante i provini. Si vedeva che era un gioco che gli piaceva e che gli dava la possibilità di tirare fuori emozioni che erano chiuse dentro di lui. Il personaggio di Tommi è frutto anche della personalità di questo bambino.
Perché ha scelto la Banda Osiris per le musiche?
All'inizio avevo deciso di non inserire alcun commento musicale nel film, di lasciare che fossero essenzialmente i rumori degli ambienti a parlare. Poi ho cambiato idea e ho pensato a qualcosa che procedesse in contrapposizione rispetto all'andamento drammatico del film. La Banda Osiris mi ha regalato delle bellissime musiche che raccontavano anche gli aspetti ludici dell'infanzia. La loro musica entra nel film molto di sguincio, ma trovo che sia davvero meravigliosa dal punto di vista dell'orchestrazione.
Qual è il bilancio di questa sua esperienza?
Ho aspettato tanti anni per fare questo film. Mi ricordo ancora quando mi presentai con una sceneggiatura a quello che è il mio attuale agente. Lui fu molto cauto e, non a caso, sono passati tanti anni da allora. Nel frattempo, ho incontrato e lavorato con molti bravi registi che mi hanno insegnato tantissimo. Per il mio primo film ho cercato di volare alto, ponendomi obiettivi ambiziosi, come quello di realizzare un'opera originale, genuina, sincera, che non si appoggiasse ad altri film. Il bello di questo mondo è che non devo fare per forza una scelta tra il lavoro di regista e quello d'attore, ma posso fare entrambe le cose. E' qualcosa di molto stimolante perché sono due mestieri molto diversi tra di loro: fare l'attore implica una mimesi, mentre la regia ti da, all'opposto, la possibilità di parlare di te stesso, di metterti a nudo.