"L'equivalente cinematografico di un uccello che sta cagando sulla tua testa": non è andato certo per il sottile Quentin Tarantino e d'altronde l'iconico regista non ha mai avuto troppi peli sulla lingua nel parlare di ciò che gli piace e di quello che proprio non sopporta. Certo fa un po' impressione al cuore cinefilo pensare che tale definizione sia indirizzata ad un film di Robert Altman, maestro indiscusso della Settima Arte che ci ha regalato in carriera capolavori del calibro di MASH, Nashville e America Oggi.
A dire il vero ben due titoli del regista americano sono finiti nella lista nera di Tarantino: uno di questi è la sottovalutata incursione sci-fi di Quintet - che vedeva nei panni di villain il nostro Vittorio Gassman - e l'altro è l'opera qui oggetto di discussione, ovvero il più controverso e facilmente divisivo Anche gli uccelli uccidono. Un titolo italiano che giustifica almeno in parte il pensiero di Q.T., adattamento di quello originale (Brewster McCloud) che riprendeva il nome del personaggio principale.
Volare, oh oh
La pellicola, girata nel 1970, vede protagonista per l'appunto l'omonimo ragazzo, che conduce un'esistenza solitaria all'interno di un piccolo locale nello stadio coperto del Reliant Astrodome di Houston. Il giovane ha come obiettivo quello di realizzare un marchingegno tramite il quale poter volare e riceve il fondamentale aiuto della bella e misteriosa Louise. Quest'ultima gli ha imposto di rimanere vergine fino al momento in cui realizzerà il suo sogno, ma l'incontro con Suzanne rischia di cambiare le carte in tavola. Nel frattempo la città è scossa da una serie di morti insolite, che sembrano legate a del guano d'uccello finito sulla faccia delle malcapitate vittime; vittime che avevano tutte in qualche modo cercato di intralciare il progetto di Brewster, che finisce così per diventare il principale sospettato...
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Imperfetto ma spassoso
Come avete potuto notare dalla sinossi sopra esposta, ci troviamo davanti ad una trama quanto meno singolare, al confine del grottesco, che in molti hanno considerato come una sorta di evoluzione, più o meno naturale, del precedente cult antimilitarista MASH, girato non a caso nello stesso anno. In realtà con Anche gli angeli uccidono parliamo di un ibrido più sgangherato, non privo di momenti affascinanti nella loro logica piacevolmente stilizzata ma con qualche caduta di tono in alcune delle molteplici storyline secondarie che caratterizzano il racconto, in particolare nella prima parte.
Certo etichettarlo come il film peggiore mai realizzato è una classica sparata, e anche la maggioranza della critica allora contemporanea ha apprezzato un film ricco di soluzioni originali che si intrecciano all'interno di una narrazione corale, popolata da figure più o meno ispirate che cercano di dipanare il piano idealistico e parallelamente criminale di un protagonista sui generis.
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Il terrore viene dal cielo
Una satira sporca e graffiante, politicamente scorretta, che ci trascina ancora una volta nelle contraddizioni di un'America dove regnano gli eccessi e i sogni per essere vissuti devono obbligatoriamente passare per step forzati, spesso crudi e crudeli. Robert Altman offre un immaginario disturbante, da vecchi in sedia a rotelle che seminano il panico nel traffico cittadino a professori che esemplificano un campionario ornitologico adattato alla realtà, da ambigui poliziotti a giovanissime asse del volante - Shelley Duvall fa qui un esordio col botto - fino a quel Brewster che sembra voler scampare al sesso salvo poi trovare l'amore quando meno se lo aspetta, anticipatore di quell'epilogo al contempo liberatorio e folkloristico. E poi i volatili che diventano causa di morte e seminano una scia di terrore, eredi involontari dei loro colleghi sfruttati da Hitchcock nel sempiterno Gli uccelli.
Anche gli uccelli uccidono regala numerose sequenze su quattro ruote, tra inseguimenti più o meno realistici - memorabile la scena sui binari della ferrovia - e opta per le cose in grande nel prologo e nell'epilogo. All'inizio infatti i titoli di testa ricominciano, in una sorta di "secondo ciak", quando l'inno nazionale viene ripetuto mentre nella chiusura, nel medesimo stadio, ci viene presentato, come fosse parte di un grande circo, l'intero cast. Perché d'altronde ci troviamo dinanzi a un gioioso e giocoso baraccone, a tratti strampalato e bigger than life ma anche genuino e sottilmente ambiguo nella destrutturazione di un modo di raccontare classico, con il rischio di perdere dettagli che possono magari soggiungere ad una seconda visione. Un film da affrontare, nel bene e nel male, con buona pace di Quentin Tarantino e delle sue uscite volutamente sensazionalistiche.