Tutto ciò che ho in comune con l'incontrollabile e la follia, la depravazione e il male, tutte le mutilazioni che ho causato e la mia totale indifferenza verso di esse; tutto questo ora l'ho superato. La mia pena è costante e affilata, e io non spero per nessuno un mondo migliore, anzi voglio che la mia pena sia inflitta agli altri, voglio che nessuno possa sfuggire.
Male di vivere, sociopatia, bisogno viscerale di essere qualcun altro. Da Bateman a Batman il passo è breve. Cinque anni prima di indossare la maschera de Il Cavaliere Oscuro, Christian Bale si nasconde dietro il volto malato e perverso di Patrick Bateman, aitante newyorkese incapace di lasciare la sua firma distintiva sul mondo. Laddove Bruce Wayne è riuscito a sublimare i suoi traumi in un'icona, il giovane broker è condannato alla frustrazione, incapace persino di esprimere davvero il suo odio nei confronti del suo mondo. L'atroce dramma di American Psycho si nasconde bene dietro una lucente realtà patinata, ma sotto i capelli impomatati, gli addominali scolpiti e la pelle vellutata di Patrick Bateman scalpita un'anima in pena.
Come uno spietato trivellatore, Bret Easton Ellis ha fatto sgorgare il peggio dell'Occidente globalizzato e capitalista. Lo ha fatto scrivendo quel manifesto letterario di American Psycho, controverso romanzo pubblicato nel 1991. Libro che ha fatto inorridire alcuni e incantato i restanti. Pagine scomode per la ferocia con la quale lo scrittore americano ha delineato la parabola di un giovane americano immerso nel malessere del benessere. Nove anni più tardi, Mary Harron smussa gli angoli del libro, ma ne mantiene intatta l'aspra morale con il suo adattamento per il grande schermo. Era il 14 aprile del 2000 quando, dopo essere stato presentato al Sundance Film Festival qualche mese prima, American Psycho arrivava sugli schermi di quell'America messa al centro del suo mirino.
Un film rimasto nell'immaginario collettivo grazie a due immagini opposte, entrambe stampate sul volto di un grande Christian Bale: il volto liscio, lucido e perfetto di un uomo apatico e la sadica espressione insanguinata di un folle che gode mentre dà libero sfogo alla sua sete di morte. A vent'anni dalla sua uscita, ecco cosa ci è rimasto impresso di quell'urlo profondo chiamato American Psycho.
C'è una vaga idea di Patrick Bataman. Una sorta di astrazione. In realtà non sono io, ma una pura entità. Qualcosa di illusorio.
Cogito Ego Sum
Magari oggi si vanterebbe del suo bigliettino da visita nuovo di zecca su Facebook. Forse documenterebbe le sue lussuose cene, la sua dieta bilanciata e il suo metodico stretching a suon di Instagram Stories. Quasi certamente adescherebbe belle donne su Linkedln. Quasi dieci anni prima dell'esplosione dei social media, American Psycho ha confezionato un lucido ritratto dell'Occidente globalizzato, totalmente basato sul culto ossessivo dell'Io. Patrick Bateman scolpisce ogni giorno il suo stesso mito a suon di abiti firmati, bella fidanzata esibita come una medaglia d'oro (e tradita con escort con cui praticare sesso nel modo più spregevole possibile), splendidi locali frequentati per non tradire il conformismo della sua classe sociale. Però American Psycho si è sempre servito della superficie per infrangerla. E andare oltre. American Psycho non si limita a deridere lo yuppismo degli anni Ottanta, il suo edonismo, la sua vanità e il suo estremo materialismo. Il film va oltre la superficie dorata di quel mondo dominato dal possesso, e si dedica al dramma di non riuscire a essere qualcuno quando riesci solo ad avere qualcosa. L'Ego è esibito, mostrato con orgoglio, ma in realtà è frustrato, incapace di imporsi e di sfuggire alle ferree regole del perbenismo.
Patrick Bateman ci sussurra nell'orecchio la sua vita, brama il nostro consenso e il nostro appoggio (per questo il libro e il film sono stati persino ritenuti pericolosi), perché ha bisogno di sentirsi speciale. E nell'impossibilità di sentirsi speciale, Patrick sgomita per diventare il migliore. Via di mezzo tra Narciso e Icaro (e quindi destinato alla tragedia), il protagonista di American Psycho ha anticipato quel narcisismo di massa che riempie le nostre bacheche social. Perché dietro ogni felicità esibita di continuo, è molto probabile che si nasconda della frustrazione. Perché sì: tante volte quelli dentro i nostri post non siamo noi. Sono solo illusioni. Storie a cui ci piace credere e che ci piace raccontare.
Christian Bale: "Sul set di American Psycho dicevano che ero un pessimo attore"
Un mondo usa e getta
Immerso in una fotografia patinata, American Psycho è abilissimo nell'insinuare poco per volta una strana nausea nello spettatore. A disturbarci non solo le folli esplosioni di violenza, non soltanto le fantasie deliranti di Bateman, ma tutti i momenti consideranti "normali". Col procedere del film iniziano a diventare indigesti i dialoghi così impostati e finti, la subdola misoginia di Bateman, il suo sottile disprezzo altrui, il suo feticismo ossessivo per l'effimero. Ecco, American Psycho vent'anni fa aveva già descritto per filo e per segno la precarietà del mondo in cui siamo immersi oggi. Vite in cui si sgomita per primeggiare sono esistenze in cui gli altri sono percepiti spesso come mezzi per arrivare in cima, come pubblico da cui sentirsi adorati o nemici contro cui lottare per uscire vincitori dopo il braccio di ferro. La New York altoborghese di American Psycho è una città dove tutto è usa e getta. Dove ogni persona serve solo se può essere sfruttata: colleghi, presunti amici, fidanzate. Ogni cosa è destinata a un piacere violento ed effimero: uccidere o fare sesso, fa lo stesso. Tutto è "porzione singola", come direbbe Chuck Palahniuk in Fight Club, romanzo che con American Psycho ha tanti punti di contatto, a partire dal malessere dei loro protagonisti. Così il film ha dato libero sfogo a una precarietà affettiva, quasi filosofica attraverso il nichilismo del suo protagonista, fino a diventare persino esistenziale. Nella realtà perversa di Patrick Bateman non ci sono progetti, non c'è semina, non c'è futuro. Solo un qui e ora destinato a diventare presto cenere. Ammesso che sia esistito...
Scrivevo di una società in cui la superficie era diventata l'unica cosa. Tutto era superficie - il cibo, i vestiti - che è ciò che definisce le persone. Così ho scritto un libro che è solo azione superficiale: nessuna narratività, nessun personaggio a cui aderire, piatto, ripetitivo all'infinito. Ho usato la commedia per cogliere l'assoluta banalità della violenza di un decennio perverso.
Il dramma di un inetto
A Pirandello e Italo Svevo Patrick Bateman sarebbe piaciuto parecchio. Anche loro ne avrebbero colto alla perfezione il profondo malessere e la radicata inadeguatezza nonostante il bisogno di conformismo. Perché Patrick Bateman è un grande bluff, una tremenda menzogna, un vero e proprio inetto, incapace di elevarsi al di sopra di quella massa che tanto odia e tanto ama. Per quanto il ragazzo voglia distinguersi, prima sguazzando nel socialmente accettabile e poi sfociando nella delirante vita da serial killer, il nostro non riuscirà a lasciare mai la sua firma. American Psycho dà prima libero sfogo alle manie omicide, sadiche e perverse di Bateman per poi farle implodere, dimostrandoci che niente di tutto quello che abbiamo è accaduto davvero. Tutto era bloccato nella mente disagiata e negli appunti di un assassino solo potenziale. Un finale beffardo, che dopo tanto machismo esibito quasi deride un uomo impotente, le cui manie di grandezza e di violenza si rivelano solo masturbazioni mentali. Dietro la maschera di uomo di successo e giovane affermato, American Psycho mette in scena la voragine tra realtà e percezione della realtà. Senza dimenticarsi di quanto desideri e frustrazioni vadano d'accordo. Dopo vent'anni abbiamo capito che Patrick Bateman è un grande bluff, ma siamo consapevoli che là fuori c'è una marea di suoi cloni, pronti a raccontarci la menzogna delle loro splendide vite. E quello no. Non è solo un dramma americano.
Bret Easton Ellis: negli anni '70 i film erano arte e industria. Poi sono diventati packaging"