Asciutto, nervoso, perennemente in movimento e con la sigaretta in mano: Jonathan Rhys Meyers non è la classica star di Hollywood col sorriso perfetto, sbiancato e studiato. Irlandese, non ama "il club delle star del cinema", da cui tra l'altro si sente anche respinto. Non ha mai avuto paura di interpretare ruoli scomodi o strani, come il protagonista di Match Point di Woody Allen o, più recentemente, il vescovo guerriero nella serie tv Vikings. In American Night, nelle sale italiane dal 19 maggio, è John Kaplan, mercante d'arte che vive a New York.
Famoso e stimato, è quasi una rockstar dell'arte contemporanea. Il suo sogno è aprire la sua galleria. Per farlo finisce in un giro losco, fatto di criminali. Tra loro c'è Don Michael Rubino (Emile Hirsch), figlio di una famiglia malavitosa, che in realtà sogna di fare il pittore. A metterli sulla stessa strada è un quadro di Andy Wahrol: la Merilyn rosa.
Diretto e scritto da Alessio Della Valle, American Night è stato presentato fuori concorso a Venezia 78. Nel cast anche Jeremy Piven, Paz Vega, Michael Madsen e Fortunato Cerlino. Anastacia canta la canzone che dà il titolo al film. Abbiamo parlato di arte, industria cinematografica e filosofia di vita proprio con l'attore Johnatan Rhys Meyers, che ha una risposta originale, o comunque non convenzionale, per ogni domanda.
Jonathan Rhys Meyers e l'arte
Secondo te qual è il significato della Marilyn rosa? Hai qualcosa del genere nella tua vita?
Sicuramente non ho niente del genere. A essere onesto Andy Wahrol non è mai stato uno dei miei pittori preferiti. Non ho mai avuto molta stima per il suo lavoro come artista. Amo molto invece il lavoro del suo protetto e amico Jean-Michel Basquiat. Trovo la sua arte molto più interessante di quella di Wahrol. Quindi per me la Marilyn rosa è più un simbolo della grafica pubblicitaria più che una grande opera d'arte. È una grande testimonianza sociale di come l'arte influenzi la struttura sociale ed economica del mondo. Credo che Wahrol si sia ispirato a Edward Bernays, il nipote di Sigmund Freud: ha messo in forma d'arte il capitalismo americano. Lo ha fatto molto bene, ma non è esattamente l'arte che mi piace.
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Che rapporto hai con l'arte?
Quando non giro, ogni tanto vado nei musei. Soprattutto in nord Europa. Ma praticamente non faccio nient'altro che il mio lavoro. Sono stato a Vancouver per un periodo e, come sempre, cominciavo molto presto e finivo molto tardi. Ho praticamente zero vita sociale. L'organizzazione delle riprese lo richiede. Suono musica per me stesso. Se potessi scegliere di essere qualcuno penso che vorrei essere un grande pittore. Per due ragioni. Numero uno: non devo vedere nessuno. Interagire con nessuno. Potrei essere un assoluto mistero per tutti. L'unica cosa che dovrei mostrare sarebbero i miei lavori. Sarebbe bellissimo. Ma solo perché so cosa significa avere un po' di fama. Penso che le uniche persone che capiscono quanto sia orribile e sfiancante la fama siano quelle che ce l'hanno. Tutti vogliono essere famosi finché non lo diventano. Numero due: sei indipendente. Pensi solo al tuo lavoro. Non devi convincere gli altri a darti fondi per farlo. Sono molto geloso dei grandi artisti: tutti conoscono il loro lavoro ma sono un mistero.
Gli attori non hanno mistero: sappiamo troppe cose su di loro. Non mi piace l'auto promozione. Non mi mette a mio agio. Non so se ho quelle qualità, che sono più proprie di chi deve vendere. Ci sono attori bravissimi a farlo, a convincerti ad andare a vedere il loro film. Io non sono uno di loro. È un modo infantile di ragionare: pensare di fare una performance così sconvolgente da far cadere il mondo ai miei piedi. Sono nell'industria da quando ero un bambino e non ho più sorprese. Mi limito a fare al meglio il mio lavoro, tutti i giorni. Cerco di essere il migliore padre possibile per mio figlio e la persona migliore che posso con tutti quelli che incontro, a prescindere da chi siano. Non sempre ci riesco, ma il mio obiettivo è questo. Non c'è niente di più straordinario. Non ho più desiderio né di arrivare alle stelle, né di toccare il fondo.
Jonathan Rhys Meyers: villains e sogni
In questo film tutti pensano di essere gli eroi della propria storia, ma per altri sono i villain. Secondo te cosa rende tale un villain?
Siamo tutti villain. Dipende dalla situazione in cui ci troviamo. Siamo tutti villain quando siamo spinti dai nostri desideri e dallo spirito di sopravvivenza. È tutta una questione di punti di vista: una persona può vedere un atto come tremendo e un'altra virtuoso. Dipende da chi osserva ciò che fai. Nel film tutti i personaggi, tranne quello di Paz Vega, sono canaglie.
Il tuo personaggio e quello di Emile Hirsch sacrificano tutto per riuscire a fare la cosa che amano di più, in questo caso l'arte. Quanto è importante nella vita fare ciò che ci rende davvero felici?
La maggior parte delle persone non fa ciò che ama. Perché, prima di tutto, la maggior parte delle persona non trova ciò che ama davvero. È molto raro che una persona scopra da giovane, e anche da più grande, che cosa è destinata a fare. Siamo abituati a pensare che la vita sia una linea precisa: se dovessi descrivere il mio passato e il mio futuro probabilmente disegnerei una linea. Ma realtà mi dice che la mia vita è fatta di picchi in alto e in basso. Quindi, fino a quando sei convinto di fare la cosa giusta per te non sbagli. Ma molte persone non sanno cosa è giusto per loro. Spesso vengono interrotte: dalla scuola, da relazioni, dalla famiglia, dal dover portare il cibo a tavola e non riescono a capire cosa vogliono davvero. Il flusso viene interrotto. È raro che qualcuno riesca a capire qual è la sua vocazione e ha seguirla. Sono persone molto rare e molto fortunate. La maggior parte delle persone passa la vita a cercare di trovare quella cosa.
Jonathan Rhys Meyers: una carriera da attore lunga 30 anni
Com'è cambiata la recitazione nel corso della tua carriera?
I giovani attori sono pieni di vita: vogliono vivere al massimo. La ragione è perché non sono stati ancora resi umili dalla vita. Quando ero giovane e recitavo sentivo che, nonostante stessi imparando, non avevo paura. La vita non mi aveva ancora reso umile. Quando lo fa, fai un passo indietro e cominci a pensare in modo più profondo a ciò che fai. Grazie alle esperienze di vita che ho avuto sono un attore molto più bravo adesso di quando ero un ragazzo. Se sei un attore disposto a imparare, la vita ti insegnerà molto.
In questo film vediamo come l'arte sia in grado di cambiare la vita. È lo stesso con il cinema? C'è un film che ha cambiato la tua?
Tra quelli che ho fatto Caccia al 12º uomo, perché mi piace fare film in una lingua che non conosco bene: mi permettono di diventare una persona completamente diversa per quel periodo di tempo. Ha avuto un effetto davvero profondo su di me: mi ha permesso di superare la paura dell'ignoto. Come spettatore non guardo così tanti film: quelli che faccio e non molti altri. Anche perché la maggior parte sono terribili. Perché dovrei guardare qualcosa di terribile? Come con la musica: la ascolto tutti i giorni, ma torno indietro alla musica di 30, 40, 50, 60, 100 anni fa! Non ascolto molta musica contemporanea, non guardo tutti i film che escono oggi. Con qualche rara eccezione: c'è qualche diamante. Ma la maggioranza è terribile. Guardo Tarkovsky, Robert Bresson, Eisenstein, François Truffaut, Bergman. Non si fanno più film così. Non si dedica abbastanza tempo ai film: tutti vogliono fare un sacco di soldi in fretta. C'è ancora qualche autore: Paul Thomas Anderson, Christopher Nolan. Da attore lavoro in un media che appartiene ai registi. La mia carriera non dipende da quanto siano eccellenti le mie interpretazioni, ma da quanto sia bravo il regista per cui sto lavorando. Non importa quanto un attore sia bravo: se il regista non sa dove posizionare la telecamera. C'è bisogno di qualcuno con una visione. Da attore sono solo uno degli elementi in una cosa più grande. È buffo: lavoriamo in un'industria in cui le persone, per qualche ragione completamente incorretta, concentrano la loro attenzione sugli attori. Le "stelle del cinema", "le belle persone". Le belle persone sono fortuitamente noiose. Le persone su cui dovremmo concentrarci davvero sono quelle dietro le telecamere, che creano tutto. Sono loro le vere stelle: è il regista la vera star dell'industria cinematografica. Il montatore. Il direttore della fotografia. Anche la storia funziona così: quando l'esercito francese vinceva una battaglia non si diceva che l'avevano vinta i suoi generali, ma Napoleone. Il regista è Napoleone. È la fonte da cui deriva tutto. Io sono come Murat per Napoleone.
Cosa pensi quando ti guardi indietro e vedi il percorso che hai fatto?
Sapevo che non avrei avuto una vita normale. Principalmente perché non mi sento a mio agio nel sistema che è stato creato per noi. A cominciare dal sistema scolastico: mi ha respinto e io l'ho respinto a mia volta. Non mi sono mai sentito a mio agio in mezzo a gruppi di amici, per questo ne ho pochi. Posso contare sulle dita della mano sinistra le persone che considero amiche. E questo dopo 30 anni come attore professionista. Ho fatto il mio primo film 30 anni fa e ho 5 amici. È un percorso molto solitario. Anche quando sei circondato da persone sei da solo. E io stesso ho difficoltà a interagire con il mondo reale: passo più tempo che posso sui set cinematografici e quando ho a che fare con cose come la banca o l'assicurazione della macchina per me è l'inferno. La burocrazia mi uccide. L'ho sempre saputo. Come ho sempre saputo quali siano i miei limiti. Le persone che fanno davvero dei progressi sono quelle che sanno riconoscere i doni che hanno. Quando sai di avere un dono devi tenerlo vivo per tutto il tempo che puoi. È quello che ho fatto io.
Perché secondo te abbiamo bisogno di cose materiali come la Marilyn rosa?
Non ne abbiamo bisogno. Ho sempre detestato la materialità dell'industria. Se volessi fare tonnellate di soldi andrei a Londra. Lì c'è gente disposta a buttarti soldi addosso. Conosco persone che non sanno come si passa in una porta che sono milionarie. Fare tanti soldi è la cosa più facile del mondo. Creare invece qualcosa di straordinario è difficilissimo. Cerco di avere meno cose possibili, mi distraggono dal mio lavoro. Non ho mai abbracciato la mentalità di Hollywood, da cui tra l'altro non sono mai stato accettato davvero. Ricordo di aver fatto questa conversazione, proprio in Italia tra l'altro, con Antonio Banderas. Stavamo girando un film. Eravamo nella sua macchina, stavamo parlando delle nostre esperienze come attori europei andati a Hollywood. E Antonio mi ha detto di non essere mai stato davvero invitato nel club. Nemmeno io. Non sono mai stato invitato a una festa a Hollywood, non sono entrato nelle case delle star. Non ne conoscono nessuna. Per me è meglio così. Sono una squadra di una persona.
Hai detto che non vedi molti film, ma quando trovi quello che ti piace ami ancora andare in sala?
Il mio problema con la sala è che sono un uomo del '900 e mi piace fumare. Non posso affrontare quattro ore di un film di Tarkovsky senza le mie sigarette. Non riesco a sostituire il piacere di vedere un film fumando la mia sigaretta con un litro di bevanda senza zuccheri.