Un attacco porta sempre con sé un'onda di terrore. È la motivazione stessa alla base della sua preparazione: quella di irrompere nella quotidianità di civili innocenti e ammantare di sangue, paura, traumi irreparabili, la loro esistenza. Ma se un documentario nato per raccontare gli eventi che hanno portato a quella detonazione investe lo spettatore della medesima angoscia e senso del terrore che lì si respira, allora vuol dire che quello è un documentario fatto bene.
Come sottolineeremo in questa recensione di American Manhunt: l'attentato alla maratona di Boston, la docu-serie diretta da Floyd Russ non lascia spazio a sospiri di sollievo, o momenti di recupero. È una caccia all'uomo che prende per mano il proprio spettatore per lanciarlo al centro della storia. L'opera seriale (disponibile su Netflix) va così oltre la ricerca del senso storico e l'oggettività di narrazione: rivelando i meccanismi che si nascondono dietro la realizzazione stessa di un documentario (le domande udibili degli intervistatori agli intervistati; la seduta dei testimoni dinnanzi alla macchina da presa) elimina del tutto ogni segno di drammatizzazione, sottolineando la portata reale, machiavellica e di matrice terroristica, alla base del racconto. Ciò che ne consegue è un viaggio in apnea lungo tre episodi di circa un'ora ciascuno, in cui tutto sembra fermarsi - battiti cardiaci compresi - lasciando che siano solo le sirene, gli spari, lo scoppio di bombe e le urla dei feriti, a investire lo schermo televisivo.
American Manhunt: l'attentato alla maratona di Boston, la trama
101 ore: ecco il tempo analizzato, indagato e raccontato da Floyd Russ con il suo American Manhunt: l'attentato alla maratona di Boston. Già, perché sono state 101 le ore che hanno separato l'esplosione delle due bombe, alla cattura di Džochar Carnaev, uno dei due attentatori (l'altro era il fratello Tamerlan, morto nel corso di un agguato). Suddiviso in tre episodi ("Cappello bianco, cappello nero"; "Il sogno americano"; "Non puoi far parlare un cadavere") la docu-serie segue le operazioni di individuazione dei responsabili dell'attentato, passando alla vera e propria caccia all'uomo e alla loro cattura. Un documentario costruito come un film adrenalinico, sviluppato sulla forza del ricordo di chi ha partecipato alle indagini, o si è ritrovato vittima innocente del passaggio mortale dei fratelli Carney.
Sguardi di improvviso terrore
Gli occhi non mentono, e quelli immortalati da Floyd Russ in American Manhunt: l'attentato alla maratona di Boston sono sguardi incupiti, velati ancora da quel manto di terrore e paura, speranza e coraggio. Sono occhi, però, su cui il regista decide di non indugiare mai, preferendo una ripresa più ampia rispetto alle tradizionali ristrette nei momenti di angosciante tensione persi sull'onda dei ricordi. Così facendo, Russ evita lo spettro del pietismo, favorendo un maggior coinvolgimento empatico e affettivo da parte di uno spettatore già scosso e disorientato dalla portata distruttiva dei filmati poco prima mostratigli.
I 20 migliori documentari su Netflix da vedere assolutamente
DNA della paura
Quella diretta da Russ è molto più che una ripresa della portata memoriale di dati eventi, ma una reduplicazione di un codice genetico fondato sull'ansia e la paura. Si viene così a creare una perfetta sincronizzazione di sentimenti ed emozioni vissuti dentro e fuori lo schermo: gli occhi che guardano le immagini in movimento vivono della stessa sostanza di cui sono fatti gli sguardi impietriti dalla tensione di poliziotti e vittime, giornalisti e agenti dell'FBI davanti alla macchina da presa. I ruoli si perdono, le essenze si mescolano, in uno scambio perpetuo di emozioni sopite e traumi nascosti nel cassetto dei ricordi. Giocando su un montaggio dinamico, capace di adattarsi sia ai ritmi, che ai tempi degli eventi narrati, la docu-serie firmata Netflix è una montagna russa tra l'orrore e la paura, la speranze e la rinascita di un'intera città. Un'opera costruita sulla falsariga di un film d'azione, dove al centro c'è la vita reale; un racconto in cui la ricostruzione visiva della realtà è solo affidata a poche scene ricreate con attori, mentre il resto è un collage di filmati amatoriali e a circuito chiuso dove la portata di eventi tra catture e attentati, spari e rinascite, viene rinchiusa nello spazio di una cornice televisiva.
Esplosioni di immagini rivelatrici
Viviamo bombardati da immagini, e dalle immagini le esplosioni delle bombe vengono adesso recuperate, scandagliate e riviste una, cento, mille volte, così da individuare le mani che le hanno azionate, e le menti che le hanno costruite. Un dialogo diretto di scambi egualitari, che ha permesso agli agenti dell'FBI e delle forze speciali di dare un nome e un volto agli attentatori di Boston. Ma attorno a questo scambio si instaura un gioco di sguardi che scrutano e reagiscono, passando dal gesto di due fratelli, alla messa in guardia di un'intera comunità come quella islamica e/o americana. La capacità di Russ è stata dunque quella di inserire nella propria galleria di ricordi le testimonianze non solo di chi quegli eventi li ha vissuti sulla propria pelle, ma anche di coloro che hanno sentito il contraccolpo di tale operato. Dalla comunità islamica, ai residenti di Boston, tutti sono uniti dal regista in un quadro olistico di chi si è svegliato da un sogno americano tramutatosi di colpo in incubo.
Stronger - Io sono più forte: rialzarsi sempre
Democratizzazione del terrore
A metà strada tra l'opera notturna di Michael Mann, e il thriller psicologico di Denis Villeneuve e David Fincher, American Manhunt: l'attentato alla maratona di Boston si allontana dal ricordo diretto che il cinema ha innestato nella mente dello spettatore con il biopic Stronger, per ampliare la portata del proprio discorso a un livello più universale. Dal dolore del singolo (Jeff Bauman nel film di David Gordon Green) si passa a quello dei tanti, unito dal lampeggiare di sirene in azioni pronte a illuminare il buio della notte tra una caccia all'uomo, e la ricerca della verità. Un quadro caravaggesco, American Manhunt, dipinto con tonalità ombrose, fredde, come l'oscurità del terrore, e il buio dell'ignoto, attraversate da squarci di luci abbaglianti, che accecano, disturbano, fino a illuminare la giusta via da inseguire.
Dosando in parti perfette testimonianze e materiale d'archivio, ricostruzioni attoriali, e servizi televisivi, American Manhunt: l'attentato alla maratona di Boston si fa perfetta restituzione in formato docu-seriale di 101 ore di ansia perpetua, tra ricerche e domande rimaste ancora irrisolte. Già, perché poco è cambiato da quella maratona di Boston di dieci anni fa, e con lei anche il nostro senso della paura e del pregiudizio altrui forse forse è rimasto inalterato.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di American Manhunt: l'attentato alla maratona di Boston sottolineando come la docu-serie disponibile su Netflix viva su una condivisione di quel senso di angoscia e terrore vissuta tanto sullo schermo quanto fuori dallo spazio televisivo. La caccia ai due terroristi che hanno ricoperto di sangue e paura la finish-line di Boston ritorna a vivere in tre episodi perpetuamente in apnea, dove molto viene detto e poco nascosto.
Perché ci piace
- Una fotografia dove il buio viene squarciato da luci improvvise che abbagliano e disorientano.
- La capacità di aver raccontato degli eventi reali con la suspense di un film d'azione.
- La scelta di immortalare i testimoni durante i loro racconti a debita distanza, evitando ogni sorta di melenso e retorico pietismo.
- La scelta di limitare il racconto a pochi, ma accurati, intervistati.
Cosa non va
- Oltre agli sforzi degli agenti, sarebbe stato interessante raccontare gli effetti sulla vita quotidiana di chi da quell'attentato è uscito vittima.
- Ritrovarsi dinnanzi ai titoli di coda per rendersi conto che il documentario è finito.