There's got to be a morning after/ If we can hold on through the night/ We have a chance to find the sunshine/ Let's keep on looking for the light
"Gesù, cos'è successo ai tuoi capelli?"; "Di che stai parlando? Okay, va bene, sali sull'aereo!". Questo scambio di battute fra la ricca e viziatissima Coco St. Pierre Vanderbilt e il suo parrucchiere di fiducia, Mr. Gallant, in un aeroporto di Santa Monica, pronunciata pochi minuti prima che una bomba atomica precipiti sulla California, è esemplificativa del tono assunto fin dalle scene d'apertura da questa ottava stagione di American Horror Story: tragedie di proporzioni gigantesche messe in scena con la leggerezza buffonesca che da anni, ormai, contraddistingue la serie antologica creata da Ryan Murphy e Brad Falchuk.
E The End, prima puntata di una stagione intitolata non a caso Apocalypse, costituisce l'apoteosi di questo peculiare approccio: perché l'horror sarà pure, in apparenza, la materia narrativa, ma a predominare su tutto il resto è lo smaccato gusto camp di una serie che, nell'arco di quaranta minuti, infila battute e inside joke del tipo "Free Willy come una miniserie in sei puntate: un colpo di genio!" e "Sarei persa senza di te, sono peggio di Elton John!", nei fatidici minuti in cui l'America, e probabilmente l'intera civiltà umana, stanno per essere spazzate via in una catastrofe nucleare senza ritorno.
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Apocalypse: l'inverno (nucleare) sta arrivando
Giunto sulla rete FX a un anno di distanza dal precedente capitolo, il deludente Cult, Apocalypse è stato concepito come un crossover fra due delle migliori stagioni della serie: la prima, Murder House, andata in onda nel 2011, e la terza, Coven (in mezzo Asylum, ad oggi l'insuperato capolavoro negli annali di American Horror Story). Se la sua natura di crossover è stata per mesi al centro delle notizie sulla lavorazione, questo primo episodio (firmato da Murphy e Falchuk) non vi fa però cenni espliciti, presentando invece una galleria di nuovi personaggi. Fra questi, oltre alla Coco St. Pierre Vanderbilt costantemente sopra le righe di Leslie Grossman (pupilla di Ryan Murphy dai tempi di Popular) e al Mr. Gallant dell'immancabile Evan Peters, troviamo il giovane Timmy Campbell (Kyle Allen), trascinato in un rifugio antiatomico, Outpost 3, ricavato da un antico collegio; una ragazza, Emily (Ash Santos), che condivide la stessa sorte di Timmy; e Wilhemina Venable, severa direttrice di Outpost 3, la quale ha il volto magnetico di Sarah Paulson (senza dimenticare la Miriam Mead di una vampiresca Kathy Bates).
Outpost 3 è l'ambiente suggestivo e sinistro, nonché claustrofobico, in cui Wilhemina e i suoi 'ospiti' trascorreranno un anno e mezzo dopo la guerra atomica che, nel frattempo, è costata la vita al novantanove percento della popolazione mondiale. Mentre in superficie l'inverno nucleare ha ridotto il pianeta ad un inferno inabitabile, sottoterra i sopravvissuti vengono sottoposti al pugno di ferro di Wilhemina e dei suoi seguaci, sono divisi in due categorie (i "viola" e i "grigi") in base alle rispettive categorie gerarchiche e sono condannati ad ascoltare a ripetizione due canzoni dal testo quanto mai emblematico: la versione dei Carpenters di Calling Occupants of Interplanetary Craft e la ballata romantica The Morning After di Maureen McGovern. Gli autori rimarcano a chiare lettere la struttura di questo "microcosmo sociale" ripartito fra l'élite e i servi, in uno scenario in cui i principi di libertà e di uguaglianza paiono scomparsi definitivamente.
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L'horror, nuova frontiera del guilty pleasure
Ma chi, memore dei passati fasti di American Horror Story, si aspettasse brividi e suspense, andrebbe incontro a una cocente delusione: The End potrà anche raccontare dell'apocalisse, di famiglie spezzate e di spaventose sevizie, ma il mood è molto più vicino al registro brillante di una sitcom che non a quello di una distopia horror. D'altra parte, difficile aspettarsi qualcosa di diverso se a rubare la scena è la vivace ottantacinquenne Joan Collins che, nella parte dell'eccentrica Evie Gallant, pronuncia frasi quali "Probabilmente sono fake news, ora chiamo Donald!" e "Cara, non hai idea di cosa sia la delusione finché non vai a letto con Yul Brynner". E perfino un atto di antropofagia assume connotati ridicoli quando viene annunciato dal grido "Questo stufato è Stu!": la prova di come la tendenza di Murphy e soci verso il guilty pleasure a tutti i costi possa talvolta deragliare, soffocando qualunque barlume di autentica tensione.
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È il grande tallone d'Achille di una première che, per quanto possa suscitare un certo divertimento proprio attraverso questo umorismo semifarsesco, ha comunque il sapore di un'occasione parzialmente sprecata. Nella speranza che il "colpo di coda" finale rappresenti una buona promessa per gli episodi a venire: l'ingresso nel bunker del misterioso e luciferino Michael Langdon... luciferino perché, come i fan di lunga data già sapranno, Michael Langdon è il nome del bambino dato alla luce da Vivien Harmon al termine di Murder House. Un Anticristo fattosi carne e sangue, che arriva alle porte di Outpost 3 in sella a una carrozza, con una lunga chioma bionda e il viso del giovane Cody Fern, 'ripescato' da Murphy dal cast di American Crime Story - L'assassinio di Gianni Versace: basterà questo villain demoniaco a riportare un po' di autentico horror all'interno di una serie che rischia sempre più di trasformarsi nella parodia di se stessa?
Movieplayer.it
3.0/5