"Perché me? Perché hai scelto me?" "Perché con te, con te era facile, Julian."
Una delle caratteristiche ricorrenti di buona parte del cinema americano degli anni Ottanta consiste nella forza iconica che alcuni film sono riusciti ad esprimere anche soltanto in singole scene, di per sé sufficienti a scandire elementi alla base della cultura popolare di quel decennio. Un'efficacia e una capacità di sintesi rintracciabili appieno nell'incipit di American Gigolò: un prologo in cui, mentre sullo schermo scorrono gli elegantissimi titoli di testa, a Paul Schrader bastano due minuti e mezzo per introdurci il suo protagonista, l'escort d'alto bordo Julian Kaye, e quel mondo patinato che da lì a poco diventerà un simbolo del rinnovato mito del benessere nell'America reaganiana.
Una Mercedes-Benz 450 SL che sfreccia lungo le spiagge di Los Angeles; Richard Gere in completo Armani e con i capelli al vento; lussuosi negozi d'abbigliamento e facoltose clienti in pelliccia; nessun dialogo, ma soltanto la musica di Call Me dei Blondie e la voce sensualissima di Debbie Harry: in quei due minuti e mezzo è già contenuto un intero immaginario. Questo tipo di estetica propria degli Eighties sarà spesso oggetto di dibattiti e contestazioni, ma all'alba del decennio - American Gigolò faceva il suo debutto nelle sale statunitensi il 1° febbraio 1980 - Paul Schrader la metteva al servizio di un film destinato a segnare un'epoca, e al contempo in grado di raccontarla con formidabile lucidità.
Colour me your colour, baby: l'American Gigolò di Richard Gere
American Gigolò è la terza prova da regista del trentatreenne Paul Schrader, originario del Michigan e sceneggiatore di fiducia di Martin Scorsese, per il quale sempre nel 1980 firmerà Toro Scatenato, secondo capolavoro del loro sodalizio a quattro anni da Taxi Driver. E dopo aver esplorato il sottobosco del crimine e dell'industria degli snuff movie nei precedenti Tuta blu e Hardcore, stavolta Schrader si dedica agli ambienti dell'alta borghesia losangelina (ville, ristoranti, negozi d'antiquariato), frequentati abitualmente, per ragioni professionali, dall'aitante gigolò Julian Kaye: un microcosmo luccicante di cui, tuttavia, Schrader non esita a sondare le ambiguità e gli aspetti più torbidi che covano al di sotto della sua superficie dorata.
Per il ruolo principale il trentenne Richard Gere, noto fino ad allora per I giorni del cielo di Terrence Malick, dovrà attendere il "passo indietro" delle due nuove star più quotate del momento, Christopher Reeve e John Travolta. Nelle vesti di Julian Kaye, in quegli abiti firmati che il protagonista indossa come una seconda pelle e accarezza come status symbol da idolatrare, Gere troverà la parte in grado di renderlo uno dei grandi divi del cinema hollywoodiano degli anni Ottanta: Schrader, infatti, saprà trarre il massimo dalla sua immagine di sex symbol dolce e sfrontato, yuppie vanesio con una propria integrità di fondo. Al successo del film (oltre cinquanta milioni di dollari al box office mondiale) si aggiunge quell'irresistibile potere di fascinazione che contribuirà a renderlo un cult, mentre la canzone Call Me, composta appositamente da Giorgio Moroder e Debbie Harry, schizza in cima alle classifiche, tanto da essere dichiarata da Billboard come il singolo più venduto dell'anno negli Stati Uniti.
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You can call me any day or night: il neo-noir hitchcockiano secondo Paul Schrader
Ma come precisato in apertura, la dimensione 'estetica' di American Gigolò non si riduce a un mero sfoggio di decor, vestiti firmati, oggettistica di lusso e musiche accattivanti (una delle migliori colonne sonore del leggendario Giorgio Moroder): essa è funzionale alla parabola compiuta dal personaggio di Julian, oggetto del desiderio consapevole di risvegliare le passioni di donne di mezza età, ma all'improvviso vittima di un meccanismo che non riesce a controllare, succube di un ignoto pericolo come nel più classico degli intrecci di Alfred Hitchcock. Ma il giallo, in American Gigolò, sembra poco più di un pretesto: l'omicidio viene inserito nella trama soltanto dopo quaranta minuti, quasi come una nota a piè di pagina, e Julian, più che a scoprire la verità, è interessato a fabbricarsi un alibi che lo tiri fuori dai guai.
Inizia a quel punto una lenta, progressiva "discesa agli inferi", nel corso della quale la sua languida routine scandita da appuntamenti sessuali si sgretolerà un pezzo dopo l'altro. E Paul Schrader, che con American Gigolò aggiunge un capitolo importante al genere del neo-noir, sottolinea tale rovesciamento con tutto il realismo e la durezza propri del suo cinema, passato e futuro, ma pure con una pennellata di ironia: se nella prima parte del film Julian subisce il pedinaggio teneramente goffo di Michelle Stratton (Lauren Hutton, ingaggiata per sostituire Julie Christie), la cliente che si sta innamorando di lui, poche sequenze più tardi un analogo pedinaggio lo manderà in crisi, facendogli percepire ancora più prossimo quel senso di minaccia che grava sulla sua testa.
Call me for your lover's lover's alibi: fra eros e paranoia
Ecco, in tal senso American Gigolò costituisce davvero un punto di congiunzione fra due epoche: se sul piano formale e dell'apparato visivo è un'opera apripista degli anni Ottanta, l'anima è ancora quella di un thriller della New Hollywood, un "film di paranoia" sulla scia di titoli quali Una squillo per l'ispettore Klute e La conversazione. Ed è emblematica la scena magistrale in cui Julian, convinto di essere sorvegliato, fruga in ogni angolo della sua casa, finendo per distruggerne l'arredamento con una furia quasi iconoclasta; nel frattempo la soundtrack di Moroder si fa sempre più cupa e incalzante, mentre le ombre orizzontali delle veneziane, che prima parevano decorare il corpo nudo di Julian, ora somigliano alle sbarre di una prigione.
Suggellato da un explicit di straordinario romanticismo proprio in virtù della sua essenzialità, con quella sommessa dichiarazione d'amore accompagnata dal gesto di una carezza 'impossibile' attraverso la barriera di un vetro, American Gigolò resterà il maggiore successo nella carriera di Paul Schrader, che nel 2007 ne realizzerà addirittura una sorta di ideale sequel, The Walker, con Woody Harrelson e Kristin Scott Thomas (paradossalmente, una fra le pellicole più sottovalutate del regista). Ma il suo cult movie del 1980 sarà solo il primo, in ordine di tempo, tra i film che nell'arco dell'annata definiranno le nuove coordinate del thriller: appena due settimane dopo uscirà Cruising di William Friedkin, opera per certi versi speculare a quella di Schrader in merito all'indagine sull'erotismo, mentre in estate sarà la volta di Vestito per uccidere di Brian De Palma. Tre classici d'autore che, seppure con approcci diversissimi l'uno dall'altro, concorreranno a scolpire l'immaginario di un decennio di cui hanno saputo anticipare stilemi, suggestioni e sotterranee inquietudini.