Mi chiamo Lester Burnham. Questo è il mio quartiere. Questa è la mia strada. Questa è la mia vita. Ho quarantadue anni; fra meno di un anno, sarò morto.
Nell'estate del 1999, il pubblico affolla le sale per due horror, The Blair Witch Project e Il sesto senso, destinati entrambi a fare scuola; Eyes Wide Shut, la 'scandalosa' opera postuma di Stanley Kubrick, è un'inesauribile fonte di dibattito; e la Julia Roberts di Se scappi, ti sposo si riconferma la regina del box office. Ma alle soglie dell'autunno, nell'attenzione della critica e degli spettatori comincia a farsi strada American Beauty, ovvero il film di debutto di un giovane regista britannico, Sam Mendes, attivo fino a quel momento solo in palcoscenico.
Il 15 settembre 1999 American Beauty fa il suo ingresso in una manciata di sale fra Los Angeles e New York; tre giorni più tardi si aggiudica il People's Choice Award al Festival di Toronto, consacrandosi di fatto come il titolo di punta della DreamWorks in vista dell'imminente awards season. Sono solo i "primi fuochi" di un'opera avviata a raccogliere un successo clamoroso, ma anche a diventare una delle pellicole più discusse degli anni a venire, tuttora al centro di analisi che non mancano di sottolinearne gli aspetti più controversi. Proviamo dunque a fare un passo indietro per capire come un film tanto problematico si sia trasformato nell'evento cinematografico di fine millennio e perché, nel bene e nel male, se ne continui a parlare ancora oggi...
Analisi di un fenomeno senza precedenti
Alla radice di American Beauty c'è un copione di Alan Ball, sceneggiatore della sitcom televisiva Cybill, acquistato dalla DreamWorks e affidato, con il beneplacito di Steven Spielberg, all'esordiente Sam Mendes. È quest'ultimo a scegliere Kevin Spacey e Annette Bening per i due ruoli principali: Lester Burnham, impiegato di mezza età frustrato tanto dal proprio lavoro quanto dalla vita privata, e sua moglie Carolyn, agente immobiliare ossessionata dalle apparenze. Un grande modello d'ispirazione, per lo script di Ball, è il cinema di Billy Wilder: da Viale del tramonto viene ripreso l'espediente del "morto che parla" come introduzione alle vicende, mentre l'insofferenza di Lester verso la sua situazione professionale richiama alla memoria la figura di Jack Lemmon ne L'appartamento. L'umorismo del film sconfina più volte nei territori della black comedy, ma American Beauty resta ancorato a una componente drammatica preponderante, che prenderà il sopravvento nel tragico finale.
Un amalgama azzardato, insomma, che però esercita un'irresistibile fascinazione sul pubblico, alimentata da un eccezionale passaparola e da una massiccia valanga di trofei, fra cui tre Golden Globe e sei BAFTA Award. All'edizione degli Academy Award 1999, American Beauty sbaraglia la concorrenza aggiudicandosi cinque premi Oscar: miglior film, regia, attore per Kevin Spacey, sceneggiatura originale e fotografia. A livello mondiale, gli incassi per l'opera di Mendes oltrepassano i trecentocinquanta milioni di dollari, con più di settanta milioni di biglietti venduti; a fronte di un budget di appena quindici milioni, si tratta di uno dei più strepitosi campioni d'incassi di sempre, in particolare se si considera la materia narrativa di un prodotto che è tutto fuorché il classico "film per famiglie", né tantomeno un canonico racconto edificante alla Forrest Gump.
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La perfetta famiglia americana
American Beauty, infatti, presenta un intreccio decisamente più torbido, spesso facendo leva su una smaccata sgradevolezza: le pratiche masturbatorie di Lester e la sua attrazione ben poco velata per l'adolescente Angela Hayes (Mena Suvari), compagna di scuola della figlia Jane (Thora Birch) e protagonista di fantasie sessuali che la vedono immersa in petali di rose rosse; ma anche la violenza machista ed omofoba del loro vicino di casa, il colonnello Frank Fitts (Chris Cooper), e le tendenze voyeuristiche di suo figlio Ricky (Wes Bentley), che svilupperà un intimo legame con Jane. Teatro di questa rete di "relazioni pericolose" è un tipico quartiere residenziale che potrebbe appartenere a qualunque angolo d'America, con le sue schiere di villette dai giardini curatissimi, i fiori in bella mostra fra le siepi e famiglie che, dietro i sorrisi di facciata, nascondono inconfessabili malesseri e tensioni pronte ad esplodere.
Tale sguardo cinico e dissacrante all'America suburbana e medio-borghese non costituisce certo una novità nel cinema degli anni Novanta, ma è riconducibile anzi ad uno specifico filone: da La signora ammazzatutti di John Waters a Tempesta di ghiaccio di Ang Lee, per approdare, appena un anno prima di American Beauty, ad un film perfino più tagliente e disperato, Happiness di Todd Solondz. Ma il ritratto familiare messo in scena da Sam Mendes riesce a cogliere lo Zeitgeist con una forza inedita, in virtù di quella combinazione vincente fra la commedia (gli scambi di battute al vetriolo fra Kevin Spacey e Annette Bening), il dramma e addirittura una venatura noir, con l'inquietante flashforward iniziale in cui Jane dichiara il proprio disprezzo per il padre e Ricky si offre di ucciderlo.
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Lester, Carolyn e il fascino discreto della borghesia
Nei primi anni Duemila, la 'formula' (se così si può definire) del successo di American Beauty avrà varie declinazioni: in televisione innanzitutto, con serie quali Six Feet Under (creata dallo stesso Alan Ball) e Desperate Housewives, ma in una certa misura pure al cinema (incluso l'italiano Ricordati di me, quasi un remake non dichiarato). Nel 1999, però, per il pubblico di massa un film come American Beauty è davvero un "oggetto non identificato", e dotato perciò di un'insolita attrattiva; e per quanto il lirismo della busta di plastica sospesa in aria sia stato in seguito il bersaglio di frecciate ironiche e parodie, mentre la scena ancor più celebre dei petali di rosa ha suscitato perplessità e critiche, momenti come questi hanno contribuito a scolpire la dark comedy di Mendes nel nostro immaginario collettivo.
Dalle digressioni poetiche di Ricky ai sogni erotici di Lester, il film spiazza a più riprese con i suoi repentini cambi di tono e di atmosfera, a cui corrispondono i diversi registri recitativi adottati dagli interpreti. Il carisma di Kevin Spacey, lontano anni luce dagli scandali che ne avrebbero travolto la carriera, fa sì che un protagonista quale Lester, non privo di lati potenzialmente scabrosi, si guadagni comunque - almeno in parte - l'empatia degli spettatori. E se sulla carta Carolyn Burnham rischiava di risultare monodimensionale e stereotipata, una formidabile Annette Bening ha il merito di renderla un personaggio in perenne equilibrio tra farsa e autenticità: che si riprometta con fierezza "Io venderò questa casa oggi!", si abbandoni a una solitaria crisi di pianto o si lanci in una scatenata performance canora sulle note di Don't Rain on My Parade.
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Un film sopravvalutato o un cult ancora attuale?
Un recente articolo dell'Huffington Post, intitolato Il costante declino culturale di American Beauty, sintetizza in maniera esauriente il processo di rivalutazione che, in vent'anni, è valso all'opera prima di Mendes accuse di superficialità e ambiguità morale, specialmente rispetto ad alcuni dei suoi temi più delicati (la sessualità, l'omosessualità, gli abusi), se riletti alla luce della sensibilità odierna. Ma pur ammettendo che, fra il 1999 e il 2000, la portata di un tale fenomeno possa essersi spinta oltre i suoi effettivi meriti artistici, sarebbe miope o ingeneroso non riconoscere l'importanza di un film che, nel contesto cinematografico e sociale del proprio tempo, rappresenta in qualche modo un unicum, con quel bizzarro connubio tra una ferocissima satira dell'American way of life e il sentimento che lascia trasparire nei confronti dei personaggi. Così come è innegabile che, fra i "titoli da Oscar" dell'epoca, American Beauty continui ad offrire spunti di discussione ben più numerosi di quanto non siano mai stati in grado di fare Il paziente inglese, Shakespeare in Love, Il gladiatore o A Beautiful Mind... il cinema, in fondo, non si basa anche su questo?