Un romanzo giallo come ispirazione, un film thriller come riferimento e la realtà che li supera entrambi. Puntualmente. Per quanto l'inconscio collettivo possa essere impregnato di storie tremende, di efferati finti delitti, di Keyser Söze che smettono di zoppicare e Norman Bates che sorridono guardandoci negli occhi, la realtà vince sempre con i suoi personaggi travestiti da persone (o viceversa). Vince anche quando la realtà fa di tutto per assomigliare al cinema. Perché se una ragazza viene uccisa, la notte prima del Giorno dei Morti, in una casetta isolata nel cuore dell'Italia, circondata da un sospetto gioco erotico finito in tragedia, tutto porta a trattare il caso con occhi inquinati da suggestioni e curiosità morbose. Così è stato. È successo dal 2 novembre 2007, a Perugia, quando fu ritrovato il cadavere di Meredith Kercher e iniziò la caccia ai colpevoli.
I sospetti cadono subito sulla coinquilina Amanda Knox e sul suo fidanzato Raffaele Sollecito, amanti da appena una settimana e subito accusati di scarsa empatia con il lutto, beccati a scambiarsi effusioni "fuori luogo" poco fuori dall'abitazione dove si era consumato il delitto. Dal 2007 al 2015 è successo di tutto, ci sono state versioni raccolte e poi stravolte, prove indelebili poi confutate, tre accuse di omicidio e due assoluzioni. E poi i media a fare da megafono, i bar e i parrucchieri da giurie profane. Dopo cinque anni di lavoro, Rod Blackhurst e Brian McGinn provano a ricostruire tutto questo con il denso Amanda Knox, documentario ricco di filmati inediti (alcuni durissimi) e interviste. E ci riescono benissimo, perché non solo sospendono ogni giudizio, ma espandono il punto di vista coinvolgendo anche la giustizia e l'informazione. Ne viene fuori un panorama inquinato con nuovi, (in)sospettabili colpevoli.
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V per Verdetto
Più importante del nome delle vittima, c'è solo quello del colpevole (o del presunto tale). Sembra un'amara legge non scritta dei casi di cronaca nera e anche questo non ha fatto eccezione. Amanda Knox, con il suo titolo, cade così in un consapevole paradosso, perché si sofferma solo e soltanto sul nome e sul cognome della "preda prediletta", della sospettata speciale sulla quale gli inquirenti hanno indagato prove alla mano, mentre l'opinione pubblica ha costruito presunte verità con contorni narrativi del tutto non richiesti. Ma questo titolo è una falsa pista, perché nonostante il film si apra e si chiuda al fianco di Amanda, questa intricata storia piena di supposizioni e di una strana via di mezzo tra fretta e lentezza è dedicata anche a due persone esterne al trio Knox-Sollecito-Guede: il pubblico ministero Giuliano Mignini e il giornalista Nick Pisa. Il primo a rappresentare l'uomo di legge, il secondo a fare da ambasciatore per l'informazione. E se con Knox e Sollecito i due registi cercano con tutti i loro sforzi di sospendere il giudizio, con Mignini e Pisa fanno trapelare una serie di aspetti gravi, che portano lo spettatore a puntare il dito.
Perché l'uomo di giustizia soffre di protagonismo, si sente un moderno Sherlock Holmes e fuma la pipa come i grandi detective ottocenteschi, ci appare borioso, interessato alla sua fama, distratto da sé. E ancora più accecato dalla vanagloria è Pisa, uno dei primi giornalisti giunti sul posto nel 2007. Arrivista dal sorriso perenne, anche quando si parla di morte, il "buon" Nick confessa senza scrupolo alcuno il godimento provato per un suo articolo in prima pagina, il piacere quasi sessuale provato nell'essere il cantastorie di questa fiaba oscura. Da Amanda Knox il sistema giudiziario italiano non ne esce bene (ma questo lo sapevamo già), i mass media anche, ma ancor meno questi professionisti, colpevoli di aver perso per strada il senso del loro ruolo. C'è troppo ego e troppo eco di cose lontane dalla ricerca della verità.
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Odiando Amanda
Ha il viso d'angelo ma l'animo inquieto, arzillo, curioso di provare cose nuove. Come tante ventenni che partono e vanno lontano da casa. Ha un volto pulito, dai colori chiari, ma dietro questa pacatezza esteriore, quella pulizia nei connotati, scalpita la voglia di divertirsi e di scoprire il mondo. Forse questa contraddizione di Amanda Knox ne ha favorito la pena collettiva, come se il suo aspetto fosse la sua prima, imperdonabile bugia. L'abbiamo soprannominata Foxy Knoxy, non abbiamo sopportato la sua freddezza in tribunale, ma soprattutto non abbiamo perdonato la sua presunta esuberanza sessuale, come se una ragazza a cui piace fare sesso con diversi uomini fosse da condannare a priori sul rogo del perbenismo.
Nonostante emerga tutto questo, in Amanda Knox non c'è traccia di vittimismo, ma un esplicito invito a riconsiderare il racconto di quei fatti, la ricostruzione viziata di due ragazzi forse colpevoli o forse no ma sicuramente etichettati per favorire il corposo storytelling mediatico (e mediato) a loro dedicato. Tra sessismo e stereotipi (Sollecito è stato il nerd manipolato da una rara presenza femminile nella sua vita), questo documentario cerca di diluire il senso di colpa anche tra i lettori, gli spettatori, i giudici non richiesti, tra tutti quelli che si sono fatti certe idee nel corso di questi sette anni. Quel lasso di tempo in cui abbiamo finto di voler sapere la verità, quando in realtà sapevamo già tutto. Quindi sì, per una volta, siamo tutti colpevoli.
Movieplayer.it
3.5/5