Alla ricerca del sogno perduto
E' limitativo e fuorviante definire C'era una volta in America come il miglior gangster-movie in assoluto, come pur si è detto. Il canto del cigno di Sergio Leone non è un'epopea simbolica, "illegale" e idealizzante sulla volontà di riscatto e sul senso di appartenenza ad una comunità (quella degli ebrei d'America in questo caso), allo stesso modo ad esempio de la saga de Il padrino. E non siamo d'accordo con chi in passato criticò il film pretestuosamente a causa dell'eccessiva violenza in esso contenuta, senza afferrare la portata esasperata ed estetizzante (nonché decadente) dell'intero discorso.
C'era una volta e ora non c'è più, o forse non c'è mai stato: questi sembrerebbero essere i significati più profondi (e banali) del messaggio nostalgico lanciato da Leone col suo approccio conclusivo (e concludente) al sogno americano. Un pensiero definitivo, che viene ulteriormente ampliato grazie anche ad uno dei più struggenti temi musicali della storia del cinema, a firma del compagno di sempre Ennio Morricone. Un tema riproposto continuamente in varie vesti (dall'orchestra, dall'armonica di "Cockeye" e dalla jazz band), come a divaricare ed a contestualizzare, allo stesso tempo, lo scorrere del film. In C'era una volta in America, infatti, i salti temporali che Leone pone tra gli eventi narrati, sono molto più importanti di quella che, superficialmente, può essere intesa come l'ascesa che Noodles e i suoi compari compiono nell'arco che separa l'infanzia dalla vecchiaia (in virtù di una sceneggiatura tratta dall'autobiografia romanzata del gangster Harry Grey). Perché l'insieme di flashback e di tempo presente garantisce, strano a dirsi, una ferratissima continuità del film.
Il testamento spirituale dell'indimenticato regista italiano è, difatti, un enorme involucro che somiglia tanto ad una scatola cinese piena zeppa di porte che si aprono e che si chiudono, di fessure attraverso le quali poter spiare, di specchi che, riflettendo immagini, duplicano l'ambivalenza dei protagonisti (il confronto finale tra Noodles e il senatore Bailey) e di vari elementi che disturbano la visuale (il vapore, i fumi della città e la nebbia sull'Hudson) consentendo, pur tuttavia, la transizione tra i diversi stadi della coscienza di Noodles (e dello spettatore). E' così che un dato puramente narrativo come la fine del Proibizionismo, simboleggia alla fin fine la capitolazione di Noodles. Già a partire dall'insistente squillo di un telefono che, in una delle sequenze iniziali, rimbalza fotogramma dopo fotogramma, chiudendo dal principio la storia dentro gli argini proustiani di una recherche già ben definita: quella del tradimento e del rimorso di coscienza (ma noi lo verremo a sapere dopo). Due stati emotivi che, oltre ad essere gli stessi cardini su cui è costruito l'intero film, sono anche le due facce di una stessa medaglia lanciata in aria, ma senza che riesca mai a cadere per terra in modo da sancire la vittoria dell'una o dell'altra parte.
Quel tradimento e il suo doppio (il rimorso) diventano, nel finale, l'ambiguo segnale di uno sfasamento del reale e della sua estrema permeabilità, dopo che il dualismo Noodles/Deborah era stato il riflesso mai assopito del contrasto tra istinto e ragione (con il momento chiave dello stupro in limousine, frutto dell'amarezza e del rimpianto), e il rapporto Noodles/Max era stato il riflettersi di opposti inconciliabili (Max è anche colui che farà sue le due donne violentate dall'amico). I frequentissimi zoom in avanti con cui la macchina da presa riprende gli occhi di Noodles (o degli altri personaggi), servono ad agganciare lo spettatore alla barriera che quelli sguardi innalzano tra passato e presente, tra sogno e realtà. Una trovata tecnica quasi convenzionale, ma che al contempo punta il dito verso gli orizzonti di un inconscio mai come in questo caso consapevole di sé, con un senso alto di magnificazione e di voyeurismo dell'anamnesi che solo nel grande cinema è possibile. Non casualmente, il luogo privilegiato da Noodles per la sua evasione interiore e materiale è infatti il teatro cinese delle ombre, posto dove oltre a memorabili fumate d'oppio (se ne ricorderanno i fratelli Hughes in La vera storia di Jack Lo Squartatore), il nostro può assistere a spettacoli molto simili a quelli che un altro grande regista della memoria come Ingmar Bergman amava vedere con la sua lanterna magica. E, per la logica interna del film, non è altrettanto casuale che il terribile impatto con la realtà finalmente rivelata, finalmente scoperta, avvenga per Noodles osservando un camion della spazzatura in cui, con il suo carico d'illusioni mandate al macero, sembra notarsi laidamente l'eco, seppur rovesciandone di netto il significato, della slitta di Quarto potere. La trasmutazione del cinema è così servita.
E se Noodles, rimasto solo in strada come l'ultimo uomo sulla Terra, si sia liberato veramente della propria consapevolezza di loser, rimarrà per sempre un mistero. Un dilemma che resterà sepolto sotto quel sorriso beffardo stampato sul suo volto e che conclude il film, con il massimo risultato raggiunto dall'equivocità leoniana. Ma anche di tutto quel cinema che, ancora oggi, continua a cercare con tenacia le origini dell'inizio e della fine dell'esistenza. Questo estremo saluto di Sergio Leone è, se non altro, il tentativo di dilatare all'infinito lo spazio-tempo del cinema, facendo trionfare la sua dimensione assoluta ed eterna: come era accaduto qualche anno prima con l'altrettanto enigmatica fotografia che in Shining "congelava" per sempre l'archetipo di Jack Torrance. Un'immagine, una figura, una visione che, insieme a Noodles, vivrà per sempre nelle dimensioni parallele ed indecifrabili del grande schermo.