All'ombra della svastica, tra le fiamme dell'odio
Il radicalismo politico, sia esso piegato al "mito" della purezza della razza o all'utopica dittatura di marca proletaria, costa un prezzo parecchio alto da pagare. Ne sa qualcosa Derek Vinyard (Edward Norton - Fight Club, La 25a ora) cresciuto a pane e svastica da un babbo che se n'è andato troppo presto. Non bastasse quell'odio viscerale di cui il "vecchio" gli ha riempito la testa, ci si mette anche il trapasso anticipato.
E sia. Al giovincello - eletto vice-paterfamilias da un destino fin troppo bastardo - l'enorme responsabilità di passare al timone in piena tempesta. Tipica famiglia da "working class" americana quella di Derek, periferia sdrucita ergo pericolosa e violenta. Forse c'è da capirli, forse. Arrivano a fine mese solo per intercessione divina e di chi è la colpa? Certo, soprattutto delle cravatte che ammuffiscono nella stanza dei bottoni, ma a prendersela con loro non c'è soddisfazione. Troppo lontani, ahivoglia ad alzare la voce per sperare che cambi qualcosa: arriva fioca, quasi impercettibile. La frustrazione alla lunga logora i nervi e allora bisogna fare qualcosa di più concreto che non siano le solite denunce di circostanza annegate nella pomata del "politically correct". Ok, ci sta che si strilli più forte, ma ad andar giù di spranga si perde tutti. E purtroppo Derek cade nella trappola, nel tranello della violenza "presunto-politica", ché a bastonare negri, ebrei, gay e puttane non c'è nulla di "civicamente" giustificabile.
Tant'è: Derek diventa ben presto il leader della congrega nazistoide del circondario fino al giorno in cui sfascia la testa ad un povero "colored" reo di aver tentato di fregargli la macchina. Finisce dritto dietro le sbarre a scontare una pena che lo cambierà nella testa e nel cuore: quella del carcere per Derek sarà un'esperienza che lo aiuterà a maturare nel profondo, fino a capire che la vita è troppo breve per passarla ad odiare chi ti sta accanto, neri, gialli o verdi che siano.
Purtroppo la redenzione avviene nel chiuso di un carcere e non tra le mura di casa o tra le strade del quartiere. Sarebbe stata "contagiosa", perfino terapeutica, per chi gli fosse stato accanto in quei momenti. E invece no, chi lo riabbraccia dopo esserne venuto fuori trova una persona completamente diversa e sorprendentemente cambiata: se in famiglia il "nuovo" Derek è riaccolto con il sole nel cuore, ai picchiatori "crociuncinati" quella svolta non va giù. Non fa nulla, in fondo con quei tipacci Derek voleva chiudere una volta e per sempre. C'è solo un problema: David (Edward Furlong - Terminator 2 - Il giorno del giudizio, Animal Factory), il fratello minore, il più lacerato, il più spiazzato da questo cambio di rotta. Ha sempre seguito quel vice-babbo che per lui era qualcosa di molto più grande, una specie di mentore depositario della verità assoluta. Se prima c'era da dare addosso al negro, ora c'è da redimersi da quello schifo che per troppo tempo ne ha condito l'esistenza: lo dice Derek quindi bisogna ascoltarlo. Tutto apparentemente perfetto, peccato che nel circo della svastica, David ci sia dentro fino alla punta dei capelli e che da lì non è possibile uscirne con un semplice "arrivederci".
E' diventato un piccolo omiciattolo intriso di odio, di violenza, e sebbene sia determinato a cambiare, non farà in tempo a rivedere la luce della riappacificazione con sé stesso e col mondo. Finirà crivellato da due "colored" piuttosto incavolati con lo sbarbatello dal cranio rasato.
Giù applausi convinti per quest'opera prima di tal Tony Kaye: c'è il film che di tanto in tanto scivola nel didascalico, ma c'è anche e soprattutto la pellicola che scava senza retorica e demagogia nell'universo personale di uno dei tanti borderliner che punteggiano la periferia americana.
Forse è quella crudezza esplicita che non gli ha permesso di aggiudicarsi qualche riconoscimento importante: eppure ne meritava, perlomeno quel geniaccio di Norton che - nomination by Academy in tasca - stacca l'ennesimo tagliando di qualità.