"Non rubai Alien a nessuno, piuttosto... lo rubai a tutti", disse lo sceneggiatore Dan O'Bannon. Perché, in un'epoca di copia e incolla, Alien di Ridley Scott ci ricorda una regola fondamentale: non è importante essere innovativi, ma è invece vitale avere le capacità di raccontare una storia da un'altra prospettiva. Se è stato già detto tutto, bisogna in qualche modo partire dalle certezze per creare il mito, adattandolo ad un linguaggio mutato e mutevole. Ed è innegabile che, da 45 anni, Alien abbiamo riscritto le regole della fantascienza horror, legandosi però ad un immaginario sci-fi ben strutturato, nonché figlio di quei maestri che, tutt'ora, risuonano nella scrittura dei grandi autori di genere. Guardando (e riguardando) Alien è infatti palese quanto lo schema narrativo messo in scena da Ridley Scott sia ancorato agli stilemi della fantascienza Anni Cinquanta e Sessanta. Se del film, che uscì nel 1979 (a maggio negli USA, ad ottobre in Italia), si è scritto abbastanza, proviamo a tornare sulla pellicola da un'altra angolatura, osservando il cinema fantascientifico odierno, tuttavia legandolo alla poetica di un'opera che ha fatto dell'asciuttezza il suo metro poetico, tramandandolo in tre sequel, diversi spin-off e un direct sequel, ossia Alien: Romulus del bravo Fede Álvarez che, cronologicamente parlando, si piazza prima di Aliens - Scontro finale.
Un cosmo preciso, e la suggestione nata dall'intuizione di Dan O'Bannon che, più di altri, ha saputo lasciare impressa la sua visione cinematografica senza rinnegare mai le origini delle sue rivoluzionarie idee: una nave spaziale, un computer di bordo, un gatto e una tostissima cosmonauta con il volto perfetto di Sigourney Weaver in lotta contro il predominio di un clandestino artropode (l'attrice venne suggerita a Ridley Scott da Warren Beatty, che l'aveva vista a Broadway). E come spesso accade, il destino si scontra con il caso: dopo aver lavorato su Dark Star di John Carpenter, O'Bannon voleva sviluppare meglio quello che poteva essere "un horror ambientato nello spazio", non prima di aver lavorato con Alejandro Jodorowsky per il maledetto adattamento di Dune. Il resto è storia: quel film non vide mai la luce, ma lo sceneggiatore ebbe la scossa per definire al meglio Alien, che in qualche modo trae ispirazione dai dipinti di H.R. Giger e miscelando Terrore nello spazio di Mario Bava e Il pianeta proibito di Fred M. Wilcox, pensando intanto a Il mostro dell'astronave di Edward L. Cahn e a Lo squalo di Steven Spielberg. Sì, uno squalo nello spazio, ma dalle sembianze di un mostruoso e leggendario alieno.
Una nuova fantascienza?
Il gioco era pressoché fatto: Ridley Scott, che la spuntò per il ruolo da regista dopo aver presentato uno storyboard alla 20th Century Fox, riuscì in qualche modo a rivedere la fantascienza, dominata dal retaggio di Star Wars, sotto un'ombra inquieta e inquietante, aggiornando il genere in un'orizzonte decisamente sfumato e, in qualche modo, embrionale nella sua sfumatura post-moderna. Horror, sci-fi, dramma, survival movie. Alien ha in sé uno spirito poliglotta, capace di affilare la tensione come un thriller alla Agatha Christie, spaventando tanto quanto un film di Tobe Hoper. "Il film non è invecchiato, e non è obsoleto. Mi ha sempre colpito lo spirito analogico. Hanno realizzato un'opera incredibile senza un budget importante", dirà Fede Álvarez, in una speciale featurette su Alien: Romulus presentata in anteprima al Comicon di Napoli.
Perché lo ripetiamo: la sopravvivenza di Tenente Ellen Ripley, a bordo della Nostromo, è quindi una successiva drammatizzazione di alcuni stilemi sci-fi, ri-adattati in una storia in cui l'atmosfera, avallata dalla colonna sonora di Jerry Goldsmith, pesa tanto quanto la sceneggiatura. Se è "Una pellicola che illumina le paure primordiali", sempre secondo il regista di Alien: Romulus, quello di Scott non inventa nulla, a conti fatti, ma rende al meglio il concetto di paura e di inconscio grazie alla visione bidimensionale del regista, riuscendo a ridefinire l'intero cinema sci-fi ed horror che arriverà dopo il 1979: da La cosa di John Carpenter a The Abyss di James Cameron, da Atmosfera Zero di Peter Hyams ai recenti Underwater con Kristen Stewart o Spaceman con Adam Sandler. "Non avevamo la tecnologia di Star Wars, e un grosso aiuto è arrivato dalla scenografia", spiega Ridley Scott in dialogo con Fede Álvarez. "Per far sembrare la nave spaziale più grande abbiamo ripreso di spalla i miei figli, all'epoca piccoli. L'alieno? Per me doveva essere un enorme e bellissimo insetto"
Road to Alien: Romulus
Andando a memoria, questi solo alcuni titoli figli direttissimi di Alien. Ma, come scritto nel nostro approfondimento, che vuole in qualche modo anticipare Alien: Romulus, è importante sottolineare quanto il cinema sia solo una delle tante arti circolari. Oggi, bombardati da sequel, prequel e remake (spesso fini a sé stessi, senza anima o ragione d'esistere oltre il non scontato lato commerciale), la cinematografia ha sempre copiato da sé stessa, e a sua volta ha sempre preso spunto dalle opere letterarie, ricalcandone archetipi, relazioni, personaggi.
L'innovazione, merce ormai rarissima, non deve necessariamente essere ricercata in modo spasmodico: la derivazione di un'opera come Alien non toglie nulla all'assoluto valore artistico, tanto che il successo del film, dovuto in parte all'affermazione dell'home video durante gli Anni Ottanta, non è rintracciabile nell'originalità, bensì nella capacità di creare qualcosa di rilevante grazie ad una manciata di elementi, costruiti e sintetizzati nel modo giusto. Basta poco per plasmare l'epica, modellando l'immaginario popolare a tal punto da far diventare un film irraggiungibile. Alien di Ridley Scott, e la sua strisciante tonalità nera, è quindi il terrore più puro moltiplicato all'infinito, catturandoci e scuotendoci, al fianco di una Sigourney Weaver vessillo di quei personaggi femminili di cui oggi l'industria si è finalmente accorta. Tutto questo è Alien, un viaggio verso la Terra che ribalta l'idealizzazione che abbiamo dello spazio: niente stupore, solo un gelido panico. Perché lassù "nessuno può sentirti urlare".