Con il suo ultimo film, bellissimo e personalissimo, Alfonso Cuarón non ci ha raccontato soltanto la storia di Libo Rodriguez e del suo ruolo nella sua famiglia quando era bambino: ci ha raccontato quanto decisivo è stato l'apporto delle donne - la stessa Libo e la sua mamma, abbandonata dal marito con quattro figli piccoli - alla sua formazione, alla sua visione del mondo, e alla sua vocazione creativa. Una rivelazione che getta una luce armoniosa sulla sua filmografia precedente, perché in qualche modo sono sempre stati evidenti, nel cinema del regista e sceneggiatore messicano, sia la consapevolezza del proprio privilegio di maschio bianco e benestante, sia l'atteggiamento critico della cultura ferocemente patriarcale e misogina del suo paese.
Oggi non abbiamo bisogno di un cinema che celebri le donne come migliori degli uomini o come eredi della Terra; sia che funga da ornamento o accessorio o proprietà, sia che venga idealizzata, la donna è resa altro dall'uomo e pertanto deumanizzata; abbiamo bisogno, invece, di cineasti dalla mente aperta e dall'atteggiamento empatico che diano dell'esperienza femminile (e maschile) una rappresentazione equilibrata e lontana dagli stereotipi di genere, perché un'arte più onesta e veritiera e una società più giusta in cui a tutti gli individui sia possibile esprimere le proprie potenzialità si sostengano a vicenda. Alfonso Cuarón ha mostrato questo genere di sensibilità e di attenzione dai suoi primissimi lavori, e dopo aver visto Roma, sappiamo anche il perché. E questo ci induce a esplorare i personaggi femminili della sua non estesa ma formidabile filmografia, per scoprire come un autore maschio, bianco e borghese abbia saputo raccontare le donne come personaggi vitali e autentici, prima di tutto come esseri umani.
La piccola principessa: l'immaginazione e la solidarietà
L'incantevole debutto hollywoodiano di Alfonso Cuarón arriva quattro anni dopo il divertente ma immaturo esordio Uno per tutte, per un regista il cui indiscutibile talento ha incontrato enormi difficoltà a esprimersi nel nativo Messico, dove si era rassegnato a cambiare carriera per mantenere la sua giovane famiglia. Il passaggio da una commedia incentrata sulle peripezie di un dongiovanni alla parabola toccante di un'orfana tenace e generosa è significativo della versatilità e del mutare delle prospettive di Cuarón. Tratto liberamente dal romanzo di Frances Hodgson Burnett, e certamente ispirato al primo adattamento cinemtaografico dello stesso (diretto da Walter Lang nel 1939, e interpretato dalla leggendaria child star Shirley Temple) La piccola principessa - disponibile nel catalogo di InfinityTV - è la storia di Sara Crewe, una bambina affidata dal padre, ricco aristocratico inglese che vive in India, a un collegio femminile di New York durante la prima guerra mondiale: interpretata dall'incantevole Liesel Matthews, Sara è la prima di una serie protagoniste femminili ricche di umanità e di nuance, anche grazie alla bella sceneggiatura di Elizabeth Chandler e Richard LaGravenese.
Vittima di un clamoroso cambiamento di fortune, la piccola Sara, inizialmente trattata come una principessa dalla direttrice dell'istituto grazie alla fama di ricchezza di suo padre, si ritrova a fare la sguattera e a soffrire il freddo e la fame; non perde per questo né la gentilezza né la speranza, anzi trova una grande forza nell'amicizia con Becky, un'altra piccola orfana impiegata come domestica (e maltrattata) da Miss Minchin, e nella forza immaginativa del loro comune ingegno: se l'animo di Sara Crewe non si spezza non è per la "naturale" (?) abnegazione e pazienza dell'animo femminile, ma grazie alle sue risorse interiori, l'intelligenza, la fantasia e l'empatia.
Paradiso perduto: L'amore e Dickens
Poco più che trentenne, con alle spalle la sensazione suscitata da La piccola principessa (candidato a due Academy Awards), Cuarón incappa in un progetto che da molti è considerato il suo unico passo falso, e riguardo al quale lui stesso parla di una prova di mancanza di umiltà. In realtà a rivedere oggi Paradiso perduto si fatica un po' a comprendere le ragioni di un'accoglienza tanto scettica: la "colpa" principale del film è quella di fare del rocambolesco e ricchissimo racconto di formazione dickensiano (il film è tratto da Grandi speranze, e forse il titolo italiano che se ne allontana gli fa un favore) a una striggente storia d'amore, con il percorso del protagonista visto interamente nell'ottica della devozione a una donna; una "colpa", se tale, attribuibile di certo più allo sceneggiatore Mitch Glazer che a Cuarón.
L'aspetto più significativo e prezioso di Paradiso perduto è probabilmente il consolidarsi della collaborazione con Emmanuel Lubezki, che si concretizza, tra le altre cose, nell'abbacinante bellezza dei campi lunghi nelle scene ambientate in Florida, ma questo non significa che i personaggi femminili che attraversano la vicenda accanto al protagonista Finn (Ethan Hawke), ovvero la bellissima Estella di Gwyneth Paltrow e la sua tutrice e tormentatrice, Miss Dinsmoor, non siano personaggi affascinanti e complessi. Paltrow, che in quello stesso 1998 offriva una prova indimenticabile in Shakespeare in Love, forse non rende piena giustizia alla natura inquietante del trauma emotivo di cui soffre Estella; ma Anne Bancroft è una terrificante, teatrale e vendicativa Miss Dinsmoor/ Havisham su cui Dickens non avrebbe avuto nulla da ridire.
Y tu mamá también: la via misteriosa per Boca del Ciel
Per il film della consacrazione Alfonso Cuarón torna in Messico, rivisita gli anni della sua adolescenza di ragazzo borghese e privilegiato, e ci regala un personaggio femminile meraviglioso che ricopre un ruolo di rottura nella Luisa Cortés di Maribel Verdú, una bellissima trentenne sposata che accetta misteriosamente di accompagnare i due ragazzini infoiati interpretati da Diego Luna e Gael García Bernal in un viaggio verso la spiaggia paradisiaca di Boca del ciel. Pur nell'ambito dell'estetica indie e girato prevalentemente con camera a mano, Y tu mamá también non è meno virtuosistico cinematograficamente, né è meno ricco tematicamente rispetto altre opere del nostro autore. La voce off, la camera di Cuaron e Lubezki raccontano il Messico e il mondo che circonda il trio, un mondo che i due ragazzi cercano di non vedere; e lei, Luisa, diventa, con il progredire del film, il tramite tra loro e quel mondo più grande, e tra lo spettatore e la storia; basti pensare al provocante sguardo in macchina nella scena del ballo a tre nella taverna.
Con Luisa, Cuarón (e il suo co-sceneggiatore, il fratello Carlos) abbracciano e sfidano tutte le convenzioni patriarcali sul ruolo della donna: moglie tradita, oggetto del desiderio e della manipolazione maschile, poi, nel rivelare ai ragazzi i segreti del piacere femminile diventa maestra; materna e puttana promiscua allo stesso tempo, nell'unirli attraverso il prorio corpo. Ma nel finale, e con quello sguardo in camera che trasforma lo spettatore nell'oggetto del suo desiderio, oltre a costringerlo a mettere in discussione il proprio voyeurismo, la misteriosa e fragile Luisa definisce sé stessa: padrona della sua vita a un passo dalla morte, in un glorioso finale "acquatico" che preannuncia quello di Gravity.
Harry Potter e il prigioniero di Azkaban: il cuore e la mente di Hermione
Quello di Harry Potter è uno dei franchise di maggior successo di tutti i tempi, e si aprì con due film, La pietra filosofale e La camera dei segreti, affidati alla mano esperta, ma un po' piatta e anonima, di Chris Columbus. Quindici anni dopo ancora non ci capacitiamo di come sia stato possibile che la regia del terzo, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, sia finita al tizio che aveva girato Y tu mamá también; di certo J.K. Rowling voleva una mano più estrosa e autoriale per l'adattamento del gioiello della sua serie, e di certo Cuarón dovette essere persuaso, anche dal suo amigo e compatriota Guillermo Del Toro, che si infuriò e gli diede del "bastardo arrogante" perché non aveva letto i romanzi ed era perplesso sul progetto.
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Per fortuna la magia tornò a Hogwarts a volo d'ippogrifo: Cuarón accettò, e ci regalò quello che è di gran lunga il film più bello della saga per il più bello dei romanzi; ci regalò anche una sorprendente Hermione Granger, perché la tredicenne Emma Watson, pur lasciando intuire un potenziale superiore a quello delle sue co-star Daniel Radcliffe e Rupert Grint, non si era ancora liberata dalla rigidità della recitazione dei primi due film. Cuarón intuì che Hermione era molto di più che una "irritante saputella" e guidò Emma verso la rivelazione del dono più prezioso del suo personaggio: la sua intelligenza empatica. Con essa Hermione aiuta i suoi amici a crescere e a combattere e a piangere, come mostrato dalla scena dell'abbraccio a tre durante la scena dell'esecuzione di Fierobecco, che rievoca quello di Y tu mamá, strizza maliziosamente l'occhio a chi riteneva Cuarón un regista troppo adulto per Harry Potter, aggiunge poesia alla magia. Tutto questo potete riviverlo in questi giorni anche su Infinity TV.
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I figli degli uomini: la guerriera e la migrante
Se siamo grati per il fatto che Cuarón abbia accettato, a suo tempo, di fare Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, non è solo perché ha dato alla saga il suo (unico) culmine artistico, ma anche perché lo catapultò verso un progetto innovativo, ambizioso e ad alto budget, che inizialmente la Universal aveva rifiutato: I figli degli uomini. Il film del 2006 è l'opera più complessa del regista messicano, sia tematicamente che visivamente - ma anche acusticamente! -, aggiungeteci la sua spaventosa rilevanza nel panorama geopolitico contemporaneo e capirete perché ci tremano le vene dei polsi soltanto a parlarne.
Questo articolo, tuttavia, è incentrato sui personaggi femminili, quindi cercheremo di prendere un respiro profondo e calmare la tachicardia prima di parlare di un film in cui l'infertilità femminile ha spogliato l'umanità del suo futuro. Il protagonista de I figli degli uomini è un uomo, Theo Faron, interpretato da Clive Owen. Un uomo bianco chiamato forse a rispondere delle responsabilità di un'intera specie, sul limite tra lo sconforto e la speranza, affiancato e incoraggiato da due donne, le quali sono frutto di una scissione rispetto alla fonte, il romanzo The Children of Men di P.D. James: in James, la leader dei Fishes è anche la donna che porta avanti una miracolosa gravidanza. Nell'ambito della sua riflessione sull'inevitabiltà delle migrazioni, Cuarón ha voluto una giovane rifugiata africana, la "vergine" Kee (Clare-Hope Ashitey), a incarnare la speranza e a rievocare l'origine della nostra specie. Se Kee è un simbolo, nel nome e nella funzione narrativa, la Julian di Julianne Moore è donna vibrante e indipendente, autentica e generosa, chiamata a "risvegliare" dall'apatia e dal cinismo il proprio ex marito. Chiamata a un sacrificio reso ancora più memorabile dalla magnifica, impossibile sequenza in cui avviene.
Gravity: l'identificazione nello spazio
Se non lo fosse già la sua intera filmografia, per temi, qualità, risonanza emotiva, diremmo che Gravity è lo straordinario dono di Cuarón alle donne. "Avevo scritto il ruolo centrale per una donna, ma vari executive dello studio sentenziarono che il protagonista avrebbe dovuto essere un uomo. Evidentemente non erano abbastanza potenti, perché non sono riusciti nel loro intento", racconta il regista. Sandra Bullock nello spazio, protagonista di una spettacolare e appassionante parabola di liberazione e rinascita, è una grande vittoria nella battaglia per l'equa rappresentazione, non solo perché prima di lei soltanto Ellen Ripley, ma anche perché è un personaggio molto diverso da quello interpretato da Sigourney Weaver nella saga di Alien. Ryan Stone è una scienziata, una nerd; una donna timida, riservata e fragile, molto lontana dalle tipe toste ed esuberanti a cui di solito è concesso di fare "il maschiaccio" nei film d'azione. Ha il suo lavoro e il suo dolore, e delle decisioni difficili da prendere da sola. Esattamente come noi, che grazie a lei, e grazie ad Alfonso Cuarón, abbiamo scoperto la forza che c'è nella vulnerabilità.
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E poi c'è Roma, e con Roma le ragioni della capacità di questo artista di coniugare eccellenza ed emozione, le matrici della sua intelligenza e della sua sensibilità, della sua umiltà e della sua ambizione, diventano evidenti e d'ispirazione. Torneremo a parlare di Roma; intanto godiamoci il tempo che resta, guardiamo Alfonso Cuarón ricevere gli applausi e gli allori che merita durante questa Awards Season, guardiamo il mondo cambiare sul limine tra lo sconforto e la speranza.