C'è un'aspirazione che sembra arrivare da Prometeo quella che brucia nel cuore dei protagonisti modellati dalla penna e dalla cinepresa di Alex Garland. Tanti Icaro che scrutano, che guardano dall'alto dei propri cieli in tempesta, per poi bruciare di aspirazione cadendo al suolo, traditi dalla propria sicumera, da quell'ignorata natura fallace, imperfetta, dell'essere umano. Che si tratti di un romanzo, una sceneggiatura, o una regia cinematografica, Alex Garland riesce sempre a cogliere ogni fase di questa spinta anarcoide di chi tenta di elevarsi a Dio per poi mostrarsi nella sua essenza - a tratti mostruosa - terrestre. Ma in questo scacco matto giocato dal destino, la caduta dei suoi personaggi non tende a farsi riverbero di una catarsi spettatoriale, quanto a uno sguardo critico nei confronti della propria società contemporanea.
Con le sue opere l'autore traccia i confini di un monito sociale, dove le fattezze del distopico si sbrindellano per mostrarsi nelle rifrazioni di un'esistenza possibile, vicina e realizzabile alla nostra realtà. Ed è questo che colpisce e fa rabbrividire nell'opera di Garland: entro ambienti facilmente identificabili, il mondo filtrato da Garland si sveste di fantascienza per abbigliarsi di documentarismo. Nessun vincitore, solo perdenti, e non sarà l'ambientazione distopica, e per questo lontana, artificiosa, a risollevare l'anima dello spettatore da eventuali sensi di colpa. I personaggi di Alex Garland sono riflessi di un'umanità possibile, proiezioni del ruolo del regista come creatore di una realtà che credono di dominare, senza accorgersi che anche in quel loro mondo - doppio diegetico della realtà - quello a loro affidato, rimane un ruolo subalterno alle regole naturali.
Civil War, la minaccia del possibile
Sono temi, questi, che ritorneranno anche nella sua ultima fatica da regista, Civil War (qui la nostra recensione), un dipinto realizzato con pennelli intinti in una distopia del reale, sfumata da una demonizzazione dell'avversario politico, e dall'annullamento di ogni confronto perché sostenuto da una presuntuosa superiorità etica. Ma negli Stati Uniti di Civil War, tra il dominio delle armi da fuoco, e la cecità umana dinnanzi allo stato istintivo, animalesco, minaccioso di un mondo anestetizzato nelle sue emozioni, ad avere la peggio in questa Seconda Guerra Civile, è ancora una volta il popolo. A rimanere imparziali dinnanzi al caos totale, sono allora i suoi protagonisti che colgono la realtà attraverso il riflesso di una lente fotografica, o dall'obiettivo di una cinepresa, da strumenti, cioè, in grado di cogliere l'assurdità di un momento senza filtri, nella propria, insana, crudeltà. Ancora una volta l'uomo è ridotto a macchina da guerra, così come lo è stato in passato nella forma di una pagina di un romanzo (The Beach), di una sceneggiatura, o di un film. Prepariamoci allora a Civil War scoprendo quattro delle migliori opere firmate Alex Garland.
Civil War, recensione: un film che dovremmo vedere tutti (compreso il presidente USA, chiunque sia)
1. Ex-Machina
È un senso di caos che prende piede e si fa largo nell'ordine di una dialettica tra illusione e realtà, quello che si muove silente tra gli inframezzi di Ex-Machina. Uscito nel 2015, il primo film da regista di Garland riprende un tema caro all'autore, come quello dell'essere umano che auspica di superare i confini dello spazio-tempo, della morte e della natura. Lo scienziato Nathan (Oscar Isaac), nelle vesti di un dottor Frankenstein dei nostri tempi, decide di sostituirsi a Dio nella creazione di automi dall'aspetto umano. Tra questi vi è Ava (Alicia Vikander), replicante perfetto dal nome pronunciato come Eva: il suo si fa dunque nome dal senso biblico, atavico, di chi è il primo di una nuova specie, custode di un peccato primordiale, e di un inganno nascosto, di una ribellione sottile, silenziosa.
Chiusi in una bolla di sapone, lontani dal mondo e soggetti a un tempo che si ripete ciclicamente, Nathan e l'impiegato Caleb (Domhnall Gleeson) seguono con religiosa attenzione gli appuntamenti con Ava, ne analizzano la sua forma umanoide, fatta di pelle e circuiti, parlano con lei, costatano la sua presa di coscienza, sottovalutandone però la sua capacità di ragionare, pensare, ordire ribellioni, progettare la sua fuga. Seguendo le tracce lasciate da Non lasciarmi, Garland scrive il proprio manifesto sull'etica nel contesto dell'intelligenza artificiale, mettendo in discussione l'umanità all'interno di macchine, robot, che umani non sono. Il sentimento e l'attrazione di Caleb per Ava, non sarà altro per la protagonista che un'arma da sfruttare, un transfert invisibile per la sua libertà, denunciando così la sua intelligenza sopraffina, un'intelligenza che supera anche quella di chi, credendosi Dio, paventa una conoscenza assoluta, ignorando e sottostimando il pensiero altrui.
2. Non Lasciarmi
Kathy, Ruth e Tommy non hanno cognome; o meglio, a completare la loro identità vi sono solo delle semplici iniziali, delle lettere in maiuscolo che possono alludere a un possibile senso di famiglia, di radici, di un passato da riscoprire, ma che in realtà nulla sono che semplici codici di de-personalizzazione di chi nasce non per vivere, ma per sopravvivere quanto basta per lasciare che altre esistenze resistano, mentre loro accettano il sonno eterno. Quella di Non Lasciarmi è una fabbrica di replicanti dove il senso etico di umanità si imprime nelle profondità dell'epidermide molto più di quanto compiuto dal Blade Runner di Ridley Scott. Alex Garland si avvicina all'omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro per appropriarsi del senso ultimo, del significato più intrinseco dell'opera, per tracciare i contorni di una sceneggiatura dove l'uomo è ridotto ad aspirazione narcisistica di eternità, perdendo la propria compassionevole umanità e mostrarsi così nella sua indicibile mostruosità. Un universo così simile a quello contemporaneo da apparire possibile, plausibile; una realtà in cui donne e uomini, bambini e bambine si riducono a carne da macello, incubatrici umani di organi da prelevare e destinare a chi un cognome ce l'ha. I tre protagonisti (interpretati da Carey Mulligan, Keira Knightley e Andrew Garfield) da semplice merce di scambio si spostano al centro di un'involuzione (dis)umana, dove i corpi si fanno presta-organi e i bisturi delle armi che distruggono. La penna di Garland e la cinepresa di Mark Romanek mostrano dunque quanto l'uomo, pur di sconfiggere la morte, arrivi a perdere la propria umanità. Ed è così che il clone diventa più umano dell'umano stesso.
3. Annientamento
In The Black Cat (1934) Poelzig espone il corpo della sposa in un parallelepipedo di vetro in cui la donna si mostra appesa per i capelli; è un momento, questo, in cui l'uso del vetro e di superfici riflettenti si fa elemento fondante di una compenetrazione simbolica fra interno ed esterno, in un gioco costante tra ciò che vediamo e ciò che crediamo di vedere. È il medesimo concetto alla base di Annientamento, film diretto da Alex Garland dove il dubbio amletico su ciò che è vero e ciò che è falso corre veloce su un medesimo binario di sguardo. È un'opera, Annientamento, che vive di retaggi lontani, ma comunque influenti, di The Beach (romanzo dello stesso Garland, da cui Danny Boyle trarrà l'omonimo film sceneggiato sempre da Garland) dove l'uomo si ritrova a scontrarsi con una natura che da Eden paradisiaco, diviene un ostile, infernale laboratorio di incubi. Così come infernale è il mondo che raccoglie i protagonisti di Annientamento, ora ridottosi a laboratorio sperimentale di mutazione genetica a seguito della caduta di un un meteorite capace di generare un'area dagli strani fenomeni.
Dopo spedizioni fallite dalle quali solo il sergente Kane (Oscar Isaac) è riuscito a fare ritorno, una squadra di cinque scienziate - compresa la biologa Lena, moglie di Kane (Natalie Portman) - si addentra nella zona mettendo a rischio il proprio già precario destino. Quest scientifica e filosofica in un regno dove le leggi della natura sono sovvertite, Annientamento (tratto dal romanzo di Jeff VanderMeer) inizia esattamente dove si conclude Ex Machina: la messa in scena di un mondo - l'Area X - dall'ambiguità perturbante di un universo iper-umano pronto ad attivarsi. Rielaborazione in chiave contemporanea di film culto del genere (La cosa, Alien, Stalker) l'opera di Garland si eleva a mondo dove tutto appare ciò che non è: i colori scintillanti e cangianti del Bagliore sono sfumature di un canto di sirene conducente al sonno eterno; una bellezza apparente dove la luce acceca, i colori mutano e la personalità svanisce insieme alla propria umanità.
4. 28 Giorni dopo
Se il mondo di Alex Garland riesce a dialogare con il profondo della coscienza umana, stimolando le sinapsi come una serie di elettroshock, è soprattuto per la sua capacità di entrare nell'universo cinematografico traducendo in parola scritta, o audio-visiva, l'inconscio contemporaneo e l'immaginario collettivo. Così è per Civil War, e così è stato nel 2002 con la sceneggiatura di 28 giorni dopo, horror fantascientifico diretto da Danny Boyle in cui il corriere irlandese Jim (Cillian Murphy) è chiamato a sopravvivere in un mondo abitato da esseri umani trasformati in zombie. In 28 giorni dopo tutto prende il via nel corso di un blitz a opera di un gruppo di animalisti che libera degli scimpanzé sottoposti alla visione forzata di immagini violente e portatori di un virus sconosciuto e pericoloso. 28 giorni dopo da questo evento, Jim si risveglia in una Londra deserta, spettrale, apparentemente disabitata. Sarà l'inizio di un'Odissea dai risvolti terrificanti. Ma 28 giorni dopo è anche un'opera che, se indagata a fondo, si slega dai suoi confini diegetici per farsi visione speculare dei riot dilaganti in tutto il mondo per governi inetti e sordi ai bisogni del proprio popolo.
Uno slancio alimentato anche dal solito desiderio umano di spostarsi a un ruolo divino, superando i limiti della medicina e della conoscenza, che andrà a reiterarsi nella sceneggiatura del successivo Sunshine (Danny Boyle, 2007). Come sarà per il Bagliore di Annientamento, anche in 28 giorni dopo a regredire l'umanità allo stato di perdente e ripristinare l'ordine delle cose, è la presenza di una natura aliena, soggetta a mutazione, causa e conseguenza del declino umano; creazione ribelle e strumento di morte per un'umanità che aspira alla divinità, il virus che rende tutto non-morto è una chiave di volta che ristabilisce uno status quo primordiale, dove l'uomo ritorna al suo ruolo passivo, contemplativo e mai attivo all'interno del corso naturale delle cose. È un osservatore, testimone astante e immobile di una civiltà che al posto di evolvere, distrugge, corrode, annienta.