L'ultima volta, e in realtà l'unica, che chi scrive ha parlato con Alessandro D'Alatri, il regista che è appena venuto a mancare, troppo presto, è stato al telefono, per un'intervista concentrata sui suoi inizi, e sul suo lavoro in pubblicità. D'Alatri stava tornando a Roma dall'Aquila, dove stava tenendo un corso all'Accademia dell'Immagine. D'Alatri è stato docente di cinema anche all'ACT MULTIMEDIA, la scuola di cinema a Cinecittà. Il fatto che mettesse a disposizione la sua grande esperienza, la sua grande passione per il cinema, a dei giovani studenti, colpiva molto. Dietro a una grande ricerca a livello di immagine e di effetti speciali, nel suo cinema c'era sempre un insegnamento, un messaggio semplice e diretto. Con quei suoi occhi chiari, limpidi com'era lui, con quel suo fare pacato, con quella passione che trasudava da ogni cosa facesse, Alessandro D'Alatri era l'insegnante perfetto. Ma non parliamo solo degli studenti, o dei messaggi che abbiamo ricevuto come pubblico. D'Alatri, letteralmente, tirava su talenti e li faceva sbocciare: pensiamo a Kim Rossi Stuart, e poi a Fabio Volo. O a Gennaro Nunziante, sceneggiatore e attore in Casomai, poi diventato un regista campione d'incassi.
Il suo modo di fare cinema era "pop", nel senso più naturale e allo stesso tempo nobile del termine. Popolare, in grado di arrivare a tutti pur essendo cinema d'autore. E immediato, cristallino, "pop" come poteva esserlo una canzone dei Beatles. Alessandro D'Alatri è sempre stato uno sperimentatore. Per come usava gli effetti speciali, e per come passava agevolmente da un linguaggio all'altro: era un grande del cinema come della nostra pubblicità, due mondi nei quali si sentiva egualmente a casa, e che si influenzavano a vicenda. All'inizio del nuovo millennio, con il trittico Casomai, La febbre e Commediasexi, è riuscito a trovare anche una sua via alla Commedia all'Italiana. Per poi fare ottime cose anche in tv, con le serie I bastardi di Pizzofalcone, Il Commissario Ricciardi e Il Professore. Il suo ultimo film al cinema è stato The Startup, del 2017.
Americano rosso, Senza pelle e I giardini dell'Eden
L'esordio al cinema di Alessandro D'Alatri è Americano rosso, del 1991, con cui D'Alatri vince il David di Donatello come miglior regista esordiente e il Ciak d'Oro per il miglior film e la fotografia. È una storia ambientata nel 1934, in periodo fascista, con Fabrizio Bentivoglio e Burt Young, una storia di amori e inganni. Ma il tocco di D'Alatri, autoriale e delicato, arriva soprattutto con il suo secondo film, Senza Pelle, del 1994, presentato nella Quinzaine des Réalisateurs al 47º Festival di Cannes, David di Donatello e Nastro d'Argento per la miglior sceneggiatura a D'Alatri. È il film che lancia definitivamente come grande interprete Kim Rossi Stuart, nei panni di un ragazzo delicato e con una sensibilità particolare, un ragazzo senza pelle, cioè senza protezione, che si innamora di una donna matura e risolta (Anna Galiena). D'Alatri vorrà ancora con sì Rossi Stuart per il suo film seguente, I Giardini dell'Eden (1998), in uno dei ruoli più intensi che un attore possa interpretare, quello di Gesù, o Jeoshua, in una sorta di "vangelo apocrifo", che segue la sua vita dai 12 ai 30 anni. Il film è stato presentato in concorso alla 55ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Addio al regista Alessandro D'Alatri, autore de La Febbre e I bastardi di Pizzofalcone
Casomai e La febbre parlavano a tutti noi
Ma il colpo di fulmine con il cinema di D'Alatri è stato con Casomai, del 2002, un film su due ragazzi che si innamoravano e provavano a mettere su una famiglia, tra le mille difficoltà che il lavoro, il denaro, gli amici, le malelingue e una città come Milano potevano comportare. Casomai è un film davvero prezioso, un film che può davvero insegnare molto sull'amore e su come proteggerlo. Alessandro D'Alatri ci aveva spiegato che due innamorati sono come due pattinatori per i quali l'equilibrio è importantissimo e basta poco per cadere. È un film semplicissimo, per quello che racconta, vero come pochi altri (guardate la scena del solletico tra Fabio Volo e Stefania Rocca), eppure anche molto costruito, complesso, a livello di regia e di immagine. E di effetti speciali: ma di questo parleremo dopo. Tre anni dopo, al ritratto di Casomai si aggiunge La febbre (2005), un'altra storia semplice, quella di un geometra che ha un sogno, aprire un locale con gli amici. È un ragazzo che ha talento, e un dono bellissimo: riesce a vedere al di là delle cose, le vede non per come sono, ma per come possono diventare. Ancora una volta D'Alatri con un film ci aveva insegnato qualcosa. In un'Italia malata (è lei che ha la "febbre" del titolo) che sembra uccidere sul nascere i sogni dei giovani, ci ha aveva detto di seguire le proprie passioni, i propri sogni.
Una terza via per il cinema italiano di quegli anni
Ma, soprattutto, Alessandro D'Alatri è stato importante per il cinema italiano dell'inizio del nuovo millennio perché il suo cinema era una terza via tra il neo-neorealismo nevrotico di Muccino e il melò catartico di Ozpetek. La sua via era quella della Commedia all'Italiana, ma attualizzata. Ne La Febbre c'erano dei richiami a I vitelloni di Fellini. La sceneggiatura di quel film, molto intelligente, era stata scritta insieme a Gennaro Nunziante, che interpretava anche un ruolo cult, quello del prete, in Casomai, e che sarebbe diventato un regista campione d'incassi con i film di Checco Zalone. In Casomai e La febbre c'erano dialoghi drammatici, ma molto realistici, e battute che avremmo potuto dire tra amici al bar. E, vi piaccia o no oggi, l'interpretazione di Fabio Volo, lanciato proprio da D'Alatri in Casomai, dava naturalezza a quelle storie. La regia era piena di momenti onirici o surreali, il montaggio era sempre creativo e originale.
Pioniere degli effetti speciali
E poi c'erano gli effetti speciali. Francesco Grisi Della Piè, fondatore di quella che è la più grande casa di produzione di effetti speciali in Italia, EDI Effetti Digitali Italiani, ci aveva raccontato di aver iniziato proprio con D'Alatri in Casomai. "Aveva voglia di sperimentare un sacco di cose, ma nel cinema era impossibile per i costi" ci aveva raccontato. "Visto che in Francia la nostra società faceva sia cinema che pubblicità ci siamo detti di provare a fare quel film insieme: invece di tagliare le scene visivamente innovative, mettiamole e noi troviamo come farle. In Casomai c'erano scene complesse per l'epoca, come quella in cui lui guarda la fotografia, e la macchina da presa entra nella fotografia, gira intorno alle persone e lui vede se stesso che prende la fotografia".
Commediasexi: i "Nuovi Mostri" italiani
Ma un altro colpo di fulmine è il sottovalutato Commediasexi, che traveste da film di Natale (nella confezione, nella locandina rosa, nel cast ricco, nel genere tra il comico e il farsesco) un film molto più complesso che, ancora una volta, prova a riprendere la Commedia all'Italiana, nascondendo dietro le risate una critica ai vizi della nostra società. È la storia di un politico (Paolo Bonolis) alle prese con una legge sulla famiglia che non ci pensa due volte a tradire la moglie con una giovane soubrette. È una comicità amara, con dentro tutta l'Italia di quegli anni (era il 2006), dei dibattiti sulle unioni di fatto e di tutte le ipocrisie sulla famiglia. C'è la tv delle vallette e dei panni sporchi che non si lavano in famiglia. E quel "Chissenefrega", la sigla dello show tv, sembra una frase simbolo di un'Italia dove tutto viene preso con leggerezza: la famiglia, gli impegni, la politica. Commediasexi è anche un chiaro esempio di come D'Alatri conoscesse i linguaggi della cultura pop nostrana e della tv, e di come li sapesse sfruttare per far arrivare il suo messaggio. Lo faceva mutuando stili e linguaggi della comunicazione di quel tempo, quella telefonico-televisiva, per riassemblarli e costruire un'opera originale. E a parlare dei "Nuovi Mostri" d'Italia come si faceva nella Commedia all'Italiana.
Alessandro D'Alatri: "In The Startup ho visto un seme di energia"
Sul mare: D'Alatri ci spiazza ancora
Ma dopo un cinepanettone farcito di lucida satira sociale, D'Alatri ci ha stupito ancora con un film che è l'opposto, una piccola opera girata con una troupe ridotta all'osso. È Sul mare (2010), tratto da un romanzo di Anna Pavignano, sceneggiatrice di molti film di Troisi, tra cui Il postino, e di Casomai. Attraverso la storia di un ragazzo di Ventotene, che d'estate porta la gente a visitare la sua isola e d'inverno lavora (in nero) sulla terraferma come muratore, D'Alatri ci spiazza ancora, e ci insegna ancora molto. Attraverso una storia d'amore, e l'incontro con una turista, ci parla di diseguaglianze sociali e di morti sul lavoro. Ancora una volta con movimenti di macchina arditi, e con un messaggio che più diretto di così non si può.
Alessandro D'Alatri: "In The Startup ho visto un seme di energia"
La pubblicità: gli spot Kodak e Sip
Alessandro D'Alatri ha sempre amato visceralmente il cinema. Tanto che si respirava cinema in ogni fotogramma dei suoi lavori, anche quando girava degli spot pubblicitari. D'Alatri ha iniziato in fatti nell'advertising e ha fatto la storia anche in questo campo. Pensiamo al famosissimo spot Kodak degli anni Ottanta, che citava apertamente Blade Runner di Ridley Scott. Quello in cui un alieno, buggerato da un negoziante, pretendeva che le sue foto fossero stampate su carta Kodak esclamando il famosissimo "ciribiribì Kodak". "Blade Runner è un film che ha scioccato la nostra generazione" ci aveva raccontato D'Alatri. "Mi sono molto divertito a fare quella pubblicità, anche perché nel mio primo spot, un 15 secondi per Brooklyn, la scenografia era di Peter Hampton, che aveva lavorato in Blade Runner". "Nello spot Kodak c'erano degli effetti speciali, come l'astronave e il rullino che vola, che all'epoca si facevano con le sovraimpressioni, non c'era il digitale: vennero due tecnici inglesi di effetti speciali, nessuno in Italia era in grado di farli. Quindi lavorai con persone che erano vicine a quella cinematografia: questo interscambio era straordinario". La storia di D'Alatri è ricca di spot di successo. Tra i più famosi c'è la serie di spot per la Sip, Una telefonata allunga la vita, con Massimo Lopez in attesa di fucilazione nel deserto, catturato dalla legione straniera, girato come un vero e proprio film, in cinemascope. Il vero spot geniale è il primo, dove tutto, dalla musica severa ai primi piani, al montaggio, trasuda tensione, per poi sciogliersi in una tarantella rilassante che suggerisce lo scampato pericolo. Da lì il telefono ha caratterizzato la vita pubblicitaria di D'Alatri: dagli spot Tim con Christian De Sica nei panni del vigile Persichetti, fino agli spot Telecom con John Travolta e Michelle Hunziker. Un altro spot che ha fatto la storia è quello dei profilattici Control in cui un professore trova un preservativo in classe e chiede "di chi è questo?" e tutti rispondono "è mio".
La commedia tra cinema e spot
Il trait d'union tra il cinema e la pubblicità di D'Alatri sembra proprio essere quella Commedia all'italiana, di cui abbiamo parlato a proposito dei suoi film. "In Italia viviamo una dimensione di forzatura della commedia negli ultimi trent'anni" ci aveva raccontato qualche anno fa. "Ci sono altri filoni che l'Italia non ha più percorso, pensiamo al cinema western, al cinema d'azione e all'animazione. La commedia è quella che sembra più strutturale al cinema italiano. E la pubblicità, che da sempre si ispira ai generi cinematografici, è in forma di commedia al novanta per cento. A volte sarebbe bello anche cambiare: ho fatto spot di cui sono orgoglioso, come Superga, dove la cifra di commedia non era presente. Oggi si fa commedia perché la pubblicità sta usando soprattutto i testimonial, è raro vedere pubblicità con attori e non testimonial famosi. E la commedia vive col comico. Quella forma di commedia era funzionale, sia in cinema che in pubblicità. La serialità televisiva l'abbiamo lanciata proprio noi con Lopez e Sip, ed è stata una formula vincente. Lo stesso è avvenuto con Lavazza Paradiso, del quale sono coautore insieme a Mauro Mortaroli della soluzione scenografica e tecnica". Ci mancherà D'Alatri, proprio perché avrebbe potuto insegnarci ancora molto. Il titolo di "Maestro", non gli sarebbe piaciuto. Ma, di fatto, è stato un perfetto professore di cinema.