Terence Davies è eleganza e raffinatezza stilistica, è rigore e veemenza, sacralità e contingenza. Lo è indomitamente da trent'anni con un cinema che invoca lentezza e umanità, lirismo e ribellione. E oggi trova nell'originalissimo biopic sulla poetessa americana Emily Dickinson, A Quiet Passion, l'ennesima occasione per riaffermare i capisaldi della sua cinematografia.
L'artista morta a 56 anni nel 1886, con una manciata di poesie pubblicate tra le centinaia scritte, la cui fama fu riconosciuta postuma, diventa nelle mani di Davies il viatico per una più profonda riflessione sull'arte, la questione dell'anima, la caducità della vita, il senso del tempo che scorre.
Nei panni dell'eroina protagonista, antesignana del femminismo moderno nella sua ostinata richiesta di rispetto dell'identità femminile, Cynthia Nixon, la Miranda di Sex and the City, da sempre impegnata sul fronte delle battaglie civili e che di recente ha annunciato la propria candidatura a Governatore dello Stato di New York. La sua performance è la rivelazione del film, che arriva in sala due anni dopo il passaggio alla Berlinale del 2016. Così ce ne parla Terence Davies durante la presentazione alla stampa.
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Tra Emily Dickinson e Cynthia Nixon: veemenza e passione
Perché Emily Dickinson?
Semplicemente perché è una grandissima poetessa. L'ho scoperta a diciotto anni dopo aver visto un documentario in tv dove sentii per la prima volta recitare i versi di una sua poesia: "Poiché non potevo fermarmi per la morte, Lei gentilmente si fermò per me".
Fu una folgorazione, non riuscivo a smettere di leggerla e rileggerla. Non sono andato all'università e sono tornato a lei soltanto molti anni più tardi, anzi mi è dispiaciuto aver perso così tanto tempo prima di riscoprirla.
Come ha scelto Cynthia Nixon, protagonista di una performance che la sdogana definitivamente dal ruolo che nella serie Sex and the City la consegnò al grande pubblico?
Ho visto Sex and the City solo una volta e senza audio; lei mi chiese perché e io le risposi che mi interessava vedere le sue reazioni; erano sempre vere, non recitava mai. Non sono un grande estimatore della serie, se uno deve vivere la vita con quel tipo di sesso tanto vale non viverla, non c'è nessuna ricchezza e nessuna gioia. Ma forse è solo invidia.
Che rapporto ha avuto con un'attrice così impegnata come lei?
Non conoscevo i suoi interessi politici prima di lavorarci insieme, e spero che vinca perché Cynthia è una veemente democratica. È vera, appassionata e ha senso dell'umorismo; queste cose servono altrimenti sei morto.
Nel film ci si scaglia contro la posterità. Ha capito perché alcuni talenti non vengono riconosciuti in vita?
Non lo so, ma questo aspetto della sua vita mi ha attirato molto. Emily Dickinson scrisse centinaia di poesie me ne furono pubblicate solo sette, e come tutti i grandi artisti era all'avanguardia sebbene non ne fosse consapevole.
Semplicemente credo che alcuni abbiano più fortuna di altri, che invece non ne hanno affatto.
Come ha evitato che il film potesse essere visto con il filtro della modernità?
Il tono è stato fondamentale. All'epoca non si parlava certo la lingua di oggi, il Regno Unito era la potenza dominante e gli americani parlavano imitando l'accento inglese. E poi c'è il ritmo di ogni battuta e di ogni singolo personaggio: è una questione di sapienza e intelligenza.
Si parla di integrità morale. Può essere anche un film provocatorio nei confronti delle nuove generazioni?
Spero prima di tutto che il film possa piacere al pubblico. Senz'altro c'è il tema dell'integrità spirituale, sono cresciuto a Liverpool in un contesto cattolico che mi ha influenzato molto. L'idea dell'anima è presente ancora oggi, perché anche se viviamo più a lungo e vorremmo semplicemente evitare la morte, la domanda è sempre la stessa: se c'è una vita dopo la morte quale sarà il destino della nostra anima? Cosa ne sarà di noi?
Questa tensione persiste in ogni epoca e spero di averla catturata. L'aspetto della spiritualità era molto veemente in Emily Dickinson; non era religiosa ma spirituale e ha difeso con veemenza l'integrità del suo animo, come tutti dovremmo fare vivendo in modo estremamente coerente con noi stessi e avendo cura della nostra vita interiore.
La poesia della Dickinson gli è servita anche per esprimere ampiamente il suo cinema?
Faccio film per come li vedo e li sento, non credo nel montaggio veloce perché è come il fast food: è falso, altera la percezione e non ti lascia nulla dentro. I miei film sono lenti e ti obbligano a guardare le cose e a vederle, puoi rispondere a questo obbligo o meno, ma è in quella lentezza che puoi catturare l'attimo fuggente, l'istante in cui le cose avvengono. Mi interessa molto la questione dell'anima, anche se non credo ci sia un'altra vita dopo la morte; pur essendomi allontanato dal cattolicesimo continuo a esaminare la mia coscienza ogni giorno, in un incredibile spreco di tempo. Ma l'unica cosa di cui sono certo è che quando morirò vorrò essere cremato e mi piacerebbe che le mie ceneri magari fossero disperse nello spazio.
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Un cinema di outsider
Il suo cinema si è spesso concentrato sull'esclusione. Dove ha trovato la forza di raccontare questo aspetto della vita? Ha mai avuto cedimenti?
Ero il più piccolo di dieci fratelli di una famiglia della classe operaia, poi scoprii di essere gay e poiché all'epoca l'omosessualità era considerata reato, pregavo ogni giorno il Signore di farmi essere come gli altri; pregavo così tanto da farmi sanguinare le ginocchia, ma da tutto questo gran pregare non ne ebbi mai alcun conforto. Non sono uno che partecipa alla vita, sono quel tipo di persona che la guarda dall'esterno, un outsider; il che ha avuto i suoi aspetti positivi e negativi, come per esempio la solitudine. Sono single e spesso mi capita di guardare gli altri in coppia e di chiedermi come abbiano fatto ad affrontare i vari problemi di un rapporto. Lavorare con gli attori è per me una grande gioia, e spesso cerco di non fare più di sette ciak, perché ciò che mi piace di più del mestiere dell'attore è catturare l'istante, quel brevissimo momento che la ripetizione non può rendere. Ci tengo che tutto sia fresco e vivo.
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Cosa ricorda del suo primo film? Come si sentiva all'epoca?
Voci lontane... sempre presenti è stato il mio primo lungometraggio. Ho scritto della mia famiglia cercando di essere fedele ai ricordi; per qualcuno l'arte è lo stato mentale in cui ti mette la musica e io credo che il cinema abbia questo stesso potere. Se ti lasci trasportare ed entri subito nella storia, allora un film ti permetterà di catturare il ricordo attraverso un attimo, un taglio, una dissolvenza, una carrellata in avanti o indietro, elementi che ci danno il senso del tempo che cambia.
In Emily Dickinson si incontrano da un lato la voglia di distinguersi, dall'altro la fragilità che la spinge a un rapporto morboso con la propria famiglia. In che modo ha raccontato questo aspetto?
C'è molto di autobiografico, come Emily anche io ho passato i miei quattro anni pensando che fossero i più felici e che la mia famiglia fosse la più bella al mondo: non avrei voluto per nessun motivo andarmene e lasciarla, ma nella vita ci si sposa, si cresce, si invecchia e si muore e non puoi controllare tutto questo. So bene cosa abbia sentito e provato. Non è rassegnazione, ma una specie di calma accettazione delle cose che la rende così toccante e struggente. Ed è commovente vedere quanto accettò di non essere stata riconosciuta, chiedendo comunque perdono.
Potremmo definire Emily un'antesignana del femminismo moderno?
Credo che i grandi artisti non siano mai consapevoli del proprio valore. Emily era anche una persona estremamente convenzionale, pensava che le cose dovessero essere fatte in un certo modo, i radicali sono anche profondamente convenzionali e il loro talento serpeggia sotto questa convenzionalità. Non so se sia stata una femminista, ma è stata di certo un faro di umanità sia per gli uomini che per le donne. Senza umanità rischiamo solo di diventare dei barbari.