È il Festival dell'incubo, del nostro lato oscuro, il Ravenna Nightmare Film Festival, che sta andando in scena nella città romagnola. E in questa cornice da incubo ci sta alla perfezione A Classic Horror Story, il film di Roberto De Feo e Paolo Strippoli presentato al festival di Taormina e disponibile in streaming su Netflix dallo scorso luglio. Abbiamo avuto l'occasione di intervistare Roberto De Feo e parlare a fondo di un film molto intelligente, stratificato, particolare. Da anni, in Italia non si producono più film horror, e il pubblico si è dovuto adattare a guardare gli horror americani, e ormai si è abituato a quei codici. Così, per fare un horror in Italia oggi, si deve partire da qui: dagli stereotipi americani, ma per poi andare in tutt'altri territori e raccontare proprio questo, la nostra pigrizia davanti a un certo tipo di cinema, e la nostra propensione invece a guardare altri "orrori" quotidiani, come la tivù del dolore e i reality morbosi. Parlare con Roberto De Feo è molto interessante. Ci ha raccontato, ad esempio, del ruolo di Netflix nella nascita di questo film e nella scelta di alcuni personaggi, la scelta di una fuoriclasse come Matilda Lutz e tante altre cose.
A Classic Horror Story: Un film nato grazie a Jordan Peele e Ari Aster
Qual è stata l'idea da cui è nato A Classic Horror Story?
L'idea di A Classic Horror Story c'era da anni. La sceneggiatura era stata scritta nel 2014. È un film che era nella mia testa da tanto tempo e i tempi per girarlo sono maturati solo ora. Prima di girare un film come A Classic Horror Story sarebbe stato quasi impossibile, in Italia quasi un'utopia. I nuovi maestri del cinema horror internazionale, come Jordan Peele e Ari Aster, i registi di Scappa - Get Out e Midsommar - Il villaggio dei dannati, hanno portato un nuovo modo di girare film horror, cioè collegare l'orrore alla società. Hanno trasformato la paura, le hanno dato un significato sociale. Grazie a questa nuova tendenza è potuto succedere che un film parcheggiato per sei anni sia stato prodotto, i produttori si sono accorti che dietro c'era un'idea vincente. Ma è stato prodotto soprattutto perché è arrivata Netflix che ha sconvolto le regole del mercato. Le logiche di Netflix sono diverse: non hanno il problema di portare le persone in sala, se il film raggiunge il loro target lo producono e basta. Per quanto riguarda i temi del film, volevamo fare un horror sociale, che parlasse della deriva che sta prendendo la nostra società, i due temi principali sono la spettacolarizzazione della morte in tv e sui social e la pornografia del dolore. Mi è capitato di essere alla guida e incontrare un incidente, e vedere e persone riprendere con il telefonino invece che occuparsi dei feriti. Pensiamo a tutte le trasmissioni che parlano di delitti, per le quali le inserzioni pubblicitarie costano tre volte tanto: questo è lucrare sulla morte. Nel mio film parliamo di un gruppo di persone che creano un commercio di snuff movie. È la mafia che dice: "pure noi ci siamo dovuti adattare, la morte vede più della cocaina".
Ha visto Quella casa nel bosco? Quanto vi siete divertiti a giocare con tutti gli stereotipi dell'horror nella prima parte?
Quella casa nel bosco è uno dei riferimenti principali, accanto a La casa di Sam Raimi e Non aprite quella porta. L'altro riferimento importantissimo è Scream, per la parte metacinematografica. Mi hanno detto che A Classic Horror Story sembra una versione italiana di Quella casa nel bosco, ma ha tematiche diverse, e rivela immediatamente la presenza di telecamere e di un gruppo di scienziati. Ma i riferimenti principali ci servivano a costruire un immaginario, a dare allo spettatore un riferimento visivo che conosce bene. E che è tematico. Dice che in Italia questi film non si possono e fare, e quindi costruisce per lo spettatore un inganno, dà a lui quello che vuole, dopo che ha visto per 30-40 anni il cinema horror americano, cerca di ricostruire per lui quell'immaginario. Che è quello che vuole. E allora noi gli facciamo vedere lo chalet americano, anche camper non è italiano, tutto è costruito per sembrare non italiano.
Come avete scelto il cast giocando sugli stereotipi dell'horror americano?
Anche il cast fa parte di questo discorso. Abbiamo scelto delle facce, dei colori, che si allontanassero dall'italianità. Abbiamo scelto degli attori che potessero funzionare in un film americano, tranne l'infiltrato, che rappresenta l'italianità, Francesco Russo. Ha quella faccia del ragazzo italiano del sud, un po' grassottello. Abbiamo inserito un cliché italiano tra i cliché americani. È l'italiano che vuole fare il film horror e non ce la fa, che poi siamo io e Paolo Strippoli (sorride). È fondamentale, se fai un film del genere, non prendersi sul serio. Volevamo denunciare l'impossibilità di fare un film horror in Italia. E non a caso ci hanno fatto fare un film metacinematografico, che un po' si prende in giro. Se si fosse preso sul serio sarebbe stato difficile convincere lo spettatore di quello che stava guardando.
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Osso, Mastrosso e Carcagnosso: il ruolo di Netflix e di Roberto Saviano
I villain del film sono Osso, Mastrosso e Carcagnosso, figure del folclore locale. Come avete lavorato a questa idea?
Netflix chiede sempre prodotti glocal, vuole il locale che diventi internazionale e così ci hanno fatto inserire nel film un elemento di folclore italiano. È stato un colpo di fortuna venire a conoscenza della leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i pardi fondatori della Mafia, che è stato Roberto Saviano a farci conoscere: quando racconta la Mafia parte sempre da questa leggenda. È stato un assist perfetto, era proprio quello che stavamo cercando, tre cattivi che abbiamo trasformato nei classici cattivi dei film horror americani, gli abbiamo dato una maschera, che non avevano, e un mantello. I tre padri fondatori della mafia li abbiamo trasformati nei villain dei film, e automaticamente questo ha dato al film un significato unico: in fondo la Mafia non è mai stata in un film horror come cattivo, e la Mafia è l'unico cliché dell'orrore italiano.
Come in Midsommar, anche il vostro film dimostra che si può fare paura all'aperto e in pieno giorno...
È la scena che dichiara dove siamo, chi sono le persone dopo le maschere, che potar i cliché italiani nel film, i mafiosi, i contadini, ci sono gli spaghetti, i pomodori, il salame. Dà un volto all'orrore, un volto che non ti aspetti: dopo che hai visto Osso, Mastrosso e Carcagnosso con maschere da Dei, vedi che invece erano dei contadini. Ti introduce il villain del film, la sindaca, Cristina Donadio, che è il cancro della società mafiosa, il politico corrotto che fa parte di associazioni a delinquere. Alla fine di quella scena arriva una pattuglia della polizia locale che la prende: è una denuncia della Mafia, che non è solo rozza, ma anche ben vestita e occupa posizioni importanti.
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Quella sfiducia nell'horror che c'è in Italia
È qui che arriva poi il messaggio, la critica al pubblico e alla tivù del dolore e della morbosità dei social, e poi a un'industria che osa poco nel cinema di genere..
È un tema che mi sta molto a cuore. Il problema per cui in Italia c'è questa sfiducia nel genere horror, è da quarant'anni, dai bei film di Dario Argento e Pupi Avati, che non si è fatto più cinema horror in Italia. Il pubblico italiano non è colpevole di questa sfiducia nell'horror siamo noi italiani che non li abbiamo più prodotti. Il pubblico si è abituato ai film di Dobbiamo annullare l'identità del paese in cui siamo, perché non ti permette di giocare in quel campionato, siamo costretti a scimmiottare quel tipo di film, e fare una brutta fine. Per cui quando un italiano fa un horror si sente dire: è la brutta copia di quel film americano che ho visto. In modo scherzoso il nostro film punta il dito contro un problema. Che va risolto altrimenti faremo sempre film come A Classic Horror Story, in cui giochiamo a fare gli horror degli americani. Il film prende in giro tutto, registi produttori, e nel finale prende in giro anche il pubblico. Che è parte del problema, anche se non per colpa sua.
Dopo il finale, sui titoli di coda, si vede una piattaforma simil Netflix, Bloodflix..
Siamo nel dark web: non tutti sanno che l'icona del dark web è una cipolla, e nella scena finale del film si vede il cliente che ha acquistato lo snuff movie. Clicca sulla cipolla, ed entra nel dark web, dove c'è Bloodflix, versione snuff horror di Netflix. È un modo di includere nella critica anche Netflix, che in questa denuncia non c'entra nulla, perché ci ha permesso di giare il film, ma è un modo per mettere in mezzo alla presa in giro anche loro.
Matilda Lutz, un colpo di fulmine
Come avete scelto Matilda Lutz, che è perfetta in questo ruolo?
Inizialmente non volevamo Matilda, ma una ragazza di 17-18 anni che affrontasse la gravidanza con maggiore dubbio, con la preoccupazione di quello che sarà. Abbiamo visto molte attrici. Ma Matilda Lutz è nata per questi ruoli, e quando ha fatto il provino è stato un colpo di fulmine. Lei è mamma, e il fatto di essere mamma l'ha aiutata a calarsi nel ruolo, soprattutto nella parte horror del film. Se sei mamma e sai cosa sta per accadere sai qual è la posta in palio, cosa stai per perdere.