Sarà uno dei quattro film italiani in lizza ai prossimi European Film Awards e a settembre dovrebbe avere delle buone chance per entrare nella rosa dei candidati tricolore in corsa per gli Oscar, soprattutto se si considera che potrebbe contare su un endorsement d'eccellenza come quello di Martin Scorsese, che figura come produttore esecutivo. La marcia trionfale di A Ciambra di Jonas Carpignano è cominciata alla Quinzaine des Réalisateurs dello scorso festival di Cannes e dopo l'uscita nelle sale italiane proseguirà con la tappa a Toronto.
Un successo annunciato che Carpignano, trentatreenne italo-americano vissuto tra Roma e New York con un nonno che fu regista di Carosello e cresciuto tra Visconti e i multiplex a stelle e strisce, presenta alla stampa italiana a pochi giorni dal debutto sul grande schermo in patria; un film che fa propria la lezione del neorealismo italiano, un'incursione nella comunità Rom di Gioia Tauro a metà tra il ritratto documentaristico e la storia di finzione, che ha saputo conquistare l'occhio di Scorsese.
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La Ciambra, Scorsese e Cannes
Non è da tutti avere Martin Scorsese tra i produttori di un film. Come ci sei riuscito?
Averlo era un sogno, ma non ho la minima idea di come gli sia arrivata la sceneggiatura. So solo che ha visto delle foto, ha letto lo script e alla fine è arrivata la notizia che ci avrebbe aiutato.
Ero molto ansioso perché avevo paura di fare brutta figura con un mio mito, ma alla fine si è rivelata un'operazione molto utile e importante: Scorsese ha visto il film e ci ha aiutato tantissimo in fase di montaggio a trovare la stesura finale, un equilibrio tra il lato più documentaristico e la storia.
Hai conosciuto questa realtà dopo il furto di un'auto con dentro tutte le attrezzature per girare; da lì sarebbe nata la tua relazione con la comunità Rom di Gioia Tauro e quindi il film. A livello umano qual è il confine tra perdono e pregiudizio?
Non è nata subito un'amicizia, la prima volta che sono andato in Ciambra ero nervosissimo e appena dopo il furto ero incazzato nero. Ero lì per realizzare un cortometraggio che non sapevo a quel punto se sarei mai riuscito a finire; durante le riprese ho conosciuto Koudus (che sarebbe diventato il protagonista di Mediterranea), ho finito il corto, sono andato a Venezia e ho incontrato delle persone che volevano aiutarmi a fare un lungometraggio basato sul corto. A quel punto mi sono trasferito a Goia Tauro, stavo spesso con Koudus, scrivevo, ma il film non partiva perché non riuscivamo a trovare i soldi necessari a metterlo in piedi. Così sono passati tre anni durante i quali ho conosciuto sempre più persone della Ciambra e ho iniziato a pensare che nel frattempo avrei potuto fare altro.
L'idea era scrivere un film di formazione sui Rom del luogo e così ho cominciato a sondare il territorio. Ho conosciuto Pio, poi tutta la sua famiglia ed è nata un'amicizia; tramite lui ho creato il mio rapporto con la Ciambra, Pio è stata la mia porta di ingresso nella comunità. Non è stato certo il furto subito a farmi innamorare di loro, ma quell'universo 'un po' fuori dal mondo' di cui fanno parte.
Cosa ti ha colpito di Pio?
Mi seguiva dappertutto, non parlava e fumava sempre. Era molto incuriosito, voleva conoscermi, è stato lui a scegliere me e non il contrario.
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Tra documentario e finzione
Come si costruisce un film che sa molto di documentario, ma che in realtà non lo è affatto?
Conosco la gente della Ciambra da cinque anni, ma li conosco molto bene da tre e mezzo. Ho scritto questo film per loro e la sceneggiatura è molto documentaristica nel senso che scrivo solo scene che ho già visto, i protagonisti dicono e fanno cose che hanno già detto. La scena della cena ad esempio, in cui Iolanda parla dei marocchini, sembra molto documentaristica, ma è fatta di tante cose già viste e sentite in passato; mi interessava inserirla per far capire come i Rom vedono gli africani. L'avevo sentita una sera e così ogni volta che andavo giù le chiedevo di raccontarmela: stava facendo delle prove, ma lei non lo sapeva. Vedo una cosa e la metto nel film, cerco sempre di inserire dentro la storia i dettagli della loro vita.
Hai incontrato delle resistenze a rimettere in scena alcune cose?
Non volevano mai farsi fotografare quando erano in pigiama ad esempio, ma erano molto fieri quando invece si parlava dei furti commessi perché per loro è 'figo' far vedere quanto sono bravi a fare ciò che fanno: è un lavoro, è un modo per sopravvivere, non lo nascondono a nessuno e non si sentono dei ladri.
La frase pronunciata dal nonno di Pio, "Siamo noi contro il mondo", è carica di significato.
La forza della comunità, e cioè la sensazione di appartenere a qualcosa d'altro, a parte, slegato, è anche il loro limite. Non si tradiscono, c'è una solidarietà tra i membri della comunità che gli dà molta forza, si proteggono l'un l'altro; quando li ho portati a Cannes ad esempio, ho cercato di comportarmi come fossimo tutti una famiglia, ma anche lì ho sentito una distanza enorme e ho capito che non potrò mai essere uno di loro. È lo stesso motivo per cui non riescono a integrarsi nel tessuto sociale di un posto.
Come sei riuscito a realizzare un film che poteva cadere nel buonismo da un lato o nello stigma sociale dall'altro?
Per me era molto importante rispettare la realtà del luogo, non avevo un messaggio da trasmettere al pubblico, ma volevo solo avvicinare lo spettatore a questo mondo. Sarebbe stato ingiusto imporre un messaggio finale, tradirli, sono sicuro che Pio farebbe la stessa cosa con me.
Pio si è esposto molto all'attenzione mediatica. Come la sta vivendo?
Amo Pio, per me è come un fratello, ma ha 15 anni, è in piena adolescenza, ha una ragazza, ha una macchina e non pensa a nient'altro: lui è lì e appartiene a quella realtà, ho anche provato a portarlo qui ma non vuole venire e tutto questo non gli interessa. A Cannes dopo l'anteprima non vedeva l'ora di tornare a casa; per lui il film è solo stata una parentesi e adesso la vita va avanti.
Rispetto alla comunità Rom, pensi che il film possa aver cambiato la loro rappresentazione di se stessi?
Non sono una di quelle persone che si mette davanti al pubblico a dire: "Il cinema può cambiare il mondo". È stata un'esperienza molto importante e quando mi incontrano mi chiedono quando faremo un altro film, ma non è cambiato nulla: alla fine loro tornano alla Ciambra e la divisione tra i gioiatani e loro rimane lì dove è stata fino ad ora. Pio si sentirà sempre uno zingaro della Ciambra e tutto questo non lo cambi con un anno di lavoro.
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Lontano dai cliché
Il modo con cui rappresenti la 'ndrangheta è molto diverso dai cliché usati dal cinema italiano pù recente.
L'ho resa per come la vedo, non volevo fare un film di denuncia. La 'ndrangheta c'è, condiziona tutto ma non spara come in Gomorra, appartiene alla realtà, ma non la vedi quando cammini per strada. È aggressiva, sottile e ho impiegato tanto tempo per capire esattamente cos'è e come raccontarla.
Certi aspetti ricordano la lezione del neorealismo italiano senza peccare però di nostalgismo. Che riferimenti hai?
Mi sento italiano, ma la mia formazione è americana. Avrei potuto lavorare in America, ma ho scelto di venire qui perché mi sento molto vicino al cinema italiano. Mio nonno era un regista di Carosello e mi ha fatto crescere con il neorealismo, ho visto i film di Visconti quando avevo otto anni; quindi quando è arrivato il momento di realizzare la mia opera prima ho capito che per me non c'era altra scelta. Mi sento molto più a mio agio in questo paese anche se sono cresciuto in America nei multiplex tra i blockbuster e Robert Altman.
Influenze internazionali che si ritrovano anche nella scelta della crew...
Non ho avuto molta scelta, perché quando sono venuto a lavorare qui in Italia non conoscevo molta gente e gli addetti ai lavori del cinema romano con cui avevo avuto modo di collaborare non avevano nessuna intenzione di venire giù a Gioia Tauro a girare un film per poche lire. Quindi ho dovuto chiedere favori ai miei amici in America; ero andato a scuola con il regista de "Il re della terra selvaggia" e avevo lavorato con loro su alcuni film, così quando è stato il mio turno tutti si sono resi disponibili a venire in Calabria per darmi una mano.
Il prossimo film?
Mi trovo bene a Gioia Tauro e vado avanti lì. Sto lavorando a un film su una ragazza e sul legame con il suo paese: quando suo padre riceverà un'offerta di lavoro dall'estero, l'intera famiglia dovrà decidere se seguirlo o rimanere a Gioia. È una storia che cerca di far capire alla gente perché i gioiatani scelgono e amano quel luogo e non lo lascerebbero mai.