L'arrivo su Prime Video di 28 Giorni Dopo di Danny Boyle darà l'opportunità a tanti (soprattutto nel pubblico più giovane) di riscoprire un grande zombie movie, il migliore a nostro parere del nuovo millennio, non solo per l'originalità della trama e la grandezza della regia, ma per la capacità di riprendere le tematiche care a Romero e Carpenter, evolverle e portarle ad un livello superiore. La Gran Bretagna appena uscita dal sogno della Cool Britannia, ancora stregata dalla Terza Via di Tony Blair, diventò il palcoscenico su cui il regista disegnava la fine della civiltà, il tramonto di ogni certezza. A distanza di quasi vent'anni da quell'opera, occorre riconoscere che purtroppo fu un caso isolato, visto che né la serialità televisiva, né tantomeno il grande schermo si sono dimostrati capaci di raccogliere l'eredità del film di Boyle, di andare oltre il deja vu o il gigantismo scenografico.
Un film che cavalcava le paure di fine millennio
Uno degli elementi più sorprendenti dietro la genesi di un film dall'autorialità così forte fu il fatto che Danny Boyle, lo sceneggiatore Alex Garland e il produttore Andrew Macdonald fossero partiti come fonte d'ispirazione da un universo videoludico legato al mondo giovanile di quegli anni, di cui quell'anno uscì la trasposizione cinematografica: Resident Evil. Si voleva creare qualcosa di diverso dai soliti non-morti, allargare il raggio d'azione ad una realtà in cui il nemico cadaverico fosse connesso non a sonde spaziali o radiazioni, ma ad un errore umano, ad una paura connessa ad una nuova dimensione tecnologica che in quegli anni divideva il mondo: l'ingegneria genetica. Il virus che distruggeva il Regno Unito era infatti frutto di esperimenti su scimpanzé, liberati da attivisti radicali incauti. L'ingegneria genetica all'epoca era passata dall'esser vista come una straordinaria speranza per l'umanità, a fobia su ciò che tale pratica poteva generare sull'umanità, spaventata da parole come OGM, clonazione e mutazione genetica. Il caso della pecora Dolly aveva diviso il mondo, ma vi era anche altro, vi era il morbo della Mucca Pazza. Il popolo di sua Maestà era rimasto profondamente scosso (a dispetto delle falsità dell'allora Primo Ministro Major) dall'escalation del morbo che dal 1996 si era aggirato in tutto il paese e poi in Europa a causa degli scarsissimi controlli sanitari nel Regno Unito. Fobie, paure, leggende complottiste e mancanza di conoscenza, crearono una psicosi che si è depositata a lungo termine nella mente degli inglesi e non solo. Un piccolo "assaggio" (per così dire) di ciò che poi è avvenuto con il Covid19, con cui tutti stiamo facendo i conti da mesi a questa parte. 28 giorni dopo era la declinazione cinematografica esponenziale di quella fobia, di un qualcosa di animalesco (più che di soprannaturale o fantascientifico) risvegliato o generato dall'uomo, che dall'interno distruggeva la società britannica così fiera della sua efficienza cosmopolita e aperta al mondo.
Recensione 28 giorni dopo (2002)
La fine del sogno della Cool Britania
Già dall'incipit, 28 giorni dopo era qualcosa di unico, portava e spingeva anche oltre il senso di alienazione, di orrore connesso alla quotidianità che Romero e Carpenter avevano tanto amato. Jim (Cillian Murphy), corriere in coma a causa di un incidente automobilistico, si risvegliava esattamente 28 giorni dopo l'inizio della pandemia completamente solo dentro un ospedale londinese, scoprendo che la struttura, come le strade, la stessa città, erano assolutamente deserte, spettrali. Già in quei primissimi minuti, Boyle fu capace di declinare dal punto di vista cinematografico una delle più grandi paure della società moderna: l'isolamento, quello totale, sia mentale che fisico, connesso anche al risveglio del vecchio incubo post-apocalittico nucleare. Il tempo pare essersi fermato, come se ogni forma di vita fosse stata disintegrata, lasciando solo auto, bus, negozi e cemento. Seguendo i passi di uno stralunato Jim, scoprimmo che Londra non era disabitata. Purtroppo.
Il morbo aveva trasformato l'intero paese in un gigantesco inferno, distruggendo ogni cosa, senza lasciare null'altro che sopravvissuti intenti a nascondersi e rimanere in vita il più possibile. Gente come Selena (Naomie Harris) e Mark (Noah Huntley), che salvano Jim dalla furia di alcuni infetti. La fotografia e la regia si uniscono nel mostrarci un labirinto, una sorta di città dei morti, dentro i cui cunicoli, ciò che rimane dei grandi magazzini, i centri commerciali simbolo dell'opulenza dell'era di Blair, Jim apprende dai suoi salvatori la fine di tutto. L'anarchia e l'orrore hanno preso il sopravvento, distrutto ogni principio morale e di solidarietà. In tutto e per tutto, Boyle più che condannare la società in generale, si scagliò contro quella inglese, così fiera del suo supposto equilibrio progressista e liberista. Ma come mostrato già in Trainspotting, la realtà parlava di fragilità, violenza, individualismo. Nel 2005 Londra avrebbe conosciuto anche lo stragismo islamico, che segnò l'inizio della fine per il Primo Ministro più "cool" di sempre.
A qualcuno piace zombie: 10 improbabili e ironici remake non-morti
Tra militari sadici e violenza di genere
28 Giorni Dopo si legò al concetto di anarchia e caos, ma invece di avere bandidos o razziatori, tribù di uomini regrediti, erano i soldati, anche più mostruosi degli infetti, i veri cattivi. In questo Boyle sovvertì un altro supposto pilone della società britannica: la sacralità e sicurezza data dalla divisa. Era la stessa divisa che era stata odiata dagli irlandesi, dagli indiani, solo in madrepatria essa era ancora pura, persino dopo i fatti del Bloody Sunday. Invece in quella caserma, in quel fortino diroccato, il Maggiore West (Christopher Eccleston) si erge a figura empia e demoniaca, capo tribù di un gruppo di militi ormai privi di ogni empatia, onore o senso della realtà. Tutte qualità che nel film erano appartenute al rassicurante Frank (Brendan Gleeson), simbolo di quella classe media, spina dorsale del fu l'Impero Britannico, che pur nel pieno della tempesta, dai campi di battaglia napoleonici ai bombardamenti hitleriani alle crisi economiche più nere, aveva sempre tenuto duro, aggrappandosi ai piccoli gesti quotidiani, all'ottimismo pratico e alla sacralità dell'essere umano. Ai militari era contrapposto Jim, divenuto vendicatore, sorta di alter ego degli infetti, animato da un furente e giustificato sentimento di vendetta. Ma non si può non parlare anche di Serena, declinazione realistica delle varie eroine che pure il cinema in questi anni non ha rinunciato a dipingerci come esseri esageratamente perfetti e invincibili. Serena fu uno dei personaggi femminili più sottovalutati del cinema di quegli anni, una ragazza portatrice di un messaggio di emancipazione, ribellione alla violenza di genere e alla cultura machista di incredibile modernità. Allo stesso tempo era distante dall'essere invulnerabile o perfetta, era il ritratto, il volto, del corpo femminile che perde la propria libertà, in nome di un supposto "bene comune" fino dall'alba dei tempi. Nono proprio temi da poco per un film sugli zombie. Qualcosa che nessun altro film dopo, negli ultimi vent'anni, ha saputo replicare.
Da The Walking Dead a iZombie, tutti i morti viventi della TV