Dopo avervi illustrato, nella prima parte del nostro approfondimento, scelte e tendenze delle giurie del Festival di Cannes a partire dal 1989, anno della clamorosa affermazione di Sesso, bugie e videotape dell'enfant prodige Steven Soderbergh, fino all'edizione del 1998, concludiamo ora l'analisi dell'albo d'oro del festival più prestigioso del mondo con una panoramica dei film premiati fra il 1999 e il 2013.
Opere firmate spesso da registi di primissimo piano della scena internazionale e, in alcuni casi, già canonizzati fra i grandi capolavori della nostra epoca...
Leggi la prima parte: 25 anni di Palme d'oro: Lynch, Soderbergh e Tarantino
1999-2002: l'Europa al cuore del Festival
La Palma d'Oro a Theodoros Angelopoulos nel 1998 testimonia l'inizio di una rinnovata attenzione, da parte delle giurie di Cannes, nei confronti del cinema europeo e dei suoi esponenti più apprezzati, ma con opere più 'accessibili' e in grado di attirare anche i gusti di un pubblico più ampio. Nel 1999 il Festival riscopre l'impegno civile e l'attenzione alle dinamiche sociali e a un diffuso senso di disagio con Rosetta, un'opera firmata dai fratelli belgi Jean-Pierre Dardenne e Luc Dardenne (fra i grandi beniamini delle giurie di Cannes); oltre alla Palma d'Oro, Rosetta ottiene il premio per la miglior attrice per la diciassettenne Émilie Dequenne, nel ruolo di una ragazza che si batte giorno per giorno per il proprio diritto a un lavoro e a condizioni di vita dignitose. Il 2000 è invece l'anno del trionfo di Lars von Trier, controverso regista danese che, dopo aver destato scandali ed entusiasmi con Le onde del destino (Gran Premio della Giuria a Cannes nel 1996), si aggiudica la Palma d'Oro per Dancer in the dark, cupo melodramma in forma di musical che si affida alla performance (e alle doti canore) della popstar islandese Björk, premiata come miglior attrice, mentre stilisticamente persegue le regole del cosiddetto manifesto Dogma, spinte all'estremo e preludio delle future provocazioni di von Trier.
Nel 2001 il Festival di Cannes torna a sorridere all'Italia grazie a Nanni Moretti, regista ed interprete, accanto a Laura Morante, de La stanza del figlio, struggente dramma sull'elaborazione del lutto di una coppia di coniugi devastati dal dolore per l'improvvisa perdita di un figlio; anche in questo caso si tratta di un prestigioso riconoscimento per un regista già affermato a livello internazionale e in grado di mettere d'accordo critica e pubblico. Nel 2002, invece, la Palma d'Oro viene assegnata a un gigante del cinema mondiale, ovvero il regista polacco Roman Polanski, per Il pianista, co-produzione tra Francia e Polonia basata sull'omonimo romanzo autobiografico del musicista Władysław Szpilman. Durissima e rigorosa testimonianza degli orrori della Seconda Guerra Mondiale e delle persecuzioni antisemite, con risonanti echi anche rispetto all'esperienza personale di Polanski (la cui famiglia rimase vittima dell'Olocausto), Il pianista inizia a Cannes una marcia trionfale che lo porterà a conquistare tre premi Oscar, inclusa una statuetta a lungo attesa per il settantenne Polanski e l'Oscar come miglior attore al protagonista Adrien Brody.
2003-2006: dagli sperimentalismi di Van Sant al classicismo di Ken Loach
Sono ancora due pellicole che battono bandiera statunitense ad imporsi ai Festival di Cannes del 2003 e del 2004: in entrambi i casi, significativamente, si tratta di opere con una strettissima connessione all'attualità, quasi a rimarcare l'esigenza del cinema di confrontarsi con i drammi, individuali ma soprattutto collettivi, di questa travagliata alba del millennio. Nel 2003 la Palma d'Oro viene attribuita a Gus Van Sant per il suo film più sperimentale, straniante e di difficile catalogazione: Elephant, ricostruzione di una strage in un liceo americano ad opera di due adolescenti armati di tutto punto e votati a una follia distruttiva senza apparente spiegazione. E la giuria rimane spiazzata dallo sguardo in apparenza distaccato della macchina da presa e dall'inesorabile freddezza della messa in scena, tanto da tributare a Van Sant, eccezionalmente, anche il premio per la miglior regia. Ironico, corrosivo e ferocemente polemico, ovvero l'esatto opposto di Elephant, è invece il vincitore della Palma d'Oro al Festival 2004: si tratta di Fahrenheit 9/11, l'infuocato documentario di Michael Moore che riporta l'attenzione sulla tragedia dell'11 settembre per elaborare un devastante atto d'accusa contro George W. Bush, all'epoca Presidente degli Stati Uniti, denunciando le sue menzogne al popolo americano e le sue rovinose scelte di politica estera.
A partire dal 2005, le giurie del Festival sembrano tornare all'interesse per la cinematografia d'autore europea e ai suoi maestri, con una profonda attenzione verso la realtà e alla storia di un continente alle prese con difficoltà sociali, ma anche con i traumatici retaggi del passato. Nella prima prospettiva si può collocare la nuova vittoria dei fratelli Dardenne nel 2005 con L'enfant, un altro ritratto intimista e percorso da acute notazioni sociologiche: questa volta al centro della scena vi è una giovane coppia impreparata di fronte alle difficoltà di mantenere un bambino. Si richiama invece ad un'idea di cinema più classico il vincitore della Palma d'Oro al Festival di Cannes del 2006: Il vento che accarezza l'erba, nuovo cimento del regista inglese Ken Loach con il genere del dramma storico dopo Terra e libertà, in questo caso mediante la cronaca, appassionata e partecipata, di un decennio di lotte per l'indipendenza dell'Irlanda e di sanguinosi scontri fra i ribelli e l'esercito britannico (ma anche tra fazioni opposte dei combattenti irlandesi).
2007-2010: la costruzione di un nuovo canone
Dopo i trofei per registi già pienamente affermati come Gus Van Sant, Ken Loach e i fratelli Dardenne, fra il 2007 e il 2010 le giurie di Cannes scelgono, in ben tre occasioni, di ricompensare invece alcune "voci nuove" del cinema internazionale, delle quali viene riconosciuta la spiccata originalità; trovando spazio, tuttavia, anche per rendere omaggio a uno dei massimi autori del panorama mondiale dell'ultimo decennio. Ma andiamo con ordine e partiamo dal 2007, quando la Palma d'Oro è attribuita a 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, trasformandosi nel veicolo in grado di offrire una visibilità mondiale al regista rumeno Cristian Mungiu: il suo film, crudo e drammatico resoconto degli sforzi di due ragazze per effettuare un aborto clandestino, costituisce anche un ritratto impietoso della società rumena durante la dittatura di Nicolae Ceaușescu. E sono ancora il rigore stilistico e l'osservazione in presa diretta della realtà, senza traccia di artifici retorici, a catterizzare La classe - Entre les murs, film che consacra il regista francese Laurent Cantet, autore di un'opera dai toni semi-documentaristici sull'esperienza all'interno di un'aula scolastica e sul senso di incomunicabilità fra gli adulti e le nuove generazioni.
Al Festival di Cannes del 2009, a conquistare la Palma d'Oro è stato, come vi abbiamo anticipato, uno dei registi più radicali, influenti e imprescindibili del nuovo millennio: l'austriaco Michael Haneke, già vincitore del Gran Premio della Giuria nel 2001 per La pianista e del premio alla miglior regia nel 2005 per Niente da nascondere. Con Il nastro bianco, girato in un suggestivo bianco e nero e ambientato in un villaggio della Germania alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, Haneke mette in scena un'angosciosa e tagliente parabola sulle ipocrisie di matrice religiosa nell'Europa protestante di inizio secolo e sui germi del nazifascismo; e la giuria di Cannes non può evitare di riconoscere il talento purissimo di uno dei più grandi cineasti viventi. Assai più bizzarra e imprevista è la scelta per la Palma d'Oro al Festival del 2010: Lo Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, un criptico quanto fascinoso dialogo fra i vivi e i morti realizzato dal regista thailandese Apichatpong Weerasethakul. Un autore, Weerasethakul, molto distante dai gusti di un pubblico occidentale ma ciò nonostante capace di sorprendere e di intrigare lo spettatore; a rimarcare l'interesse, da parte delle giurie di Cannes, anche per l'esplorazione di cinematografie più esotiche e difficilmente catalogabili.
2011-2013: la vita e l'amore nei capolavori di Malick, Haneke e Kechiche
La vita e l'amore: sembra essere questo il binomio che, fra il 2011 e il 2013, lega come un fil rouge la strepitosa tripletta incoronata nelle rispettive edizioni del Festival di Cannes. Tre autori di assoluto rilievo, ciascuno con le proprie peculiarità, per tre film entrati a pieno titolo nella storia del cinema, in grado di entusiasmare la critica pressoché all'unanimità, ma anche di emozionare un pubblico colto pronto a lasciarsi catturare dai risultati più arditi e coraggiosi della Settima Arte. Nel 2011 è l'elusivo Terrence Malick, al suo ritorno sugli schermi dopo un'assenza di ben tredici anni, ad aggiudicarsi la Palma d'Oro con The Tree of Life, ambizioso poema filosofico per immagini in cui le sequenze di vita familiare della coppia interpretata da Brad Pitt e Jessica Chastain si intrecciano con il flusso di coscienza del personaggio di Sean Penn, ma perfino con la rievocazione dell'origine del mondo e con squarci visionari fuori dal tempo. Film criptico e ammaliante, che ha diviso critici e spettatori, The Tree of Life ha sancito una svolta nell'itinerario artistico di Malick, proseguita con l'assai meno fortunato To the Wonder.
Nel 2012, la giuria del Festival è tornata ad inchinarsi al cospetto di Michael Haneke ricompensando con la Palma d'Oro il suo struggente capolavoro intitolato Amour: la narrazione, rigorosa ma incredibilmente commovente, del declino fisico di un'anziana donna colpita da una malattia che le sta sottraendo il controllo sul proprio corpo, mentre il marito assiste impotente alla sofferenza della persona con la quale ha condiviso una vita intera. Riflessione altissima e di rara potenza emotiva sul senso dell'amore, sull'ineluttabile confronto con il dolore e la morte e sull'etica del sacrificio, Amour strappa l'applauso anche in virtù delle magnifiche interpretazioni dei due protagonisti, Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, e si impone immediatamente fra le pietre miliari del nostro tempo: una consacrazione alla quale ha contribuito un'autentica valanga di trofei in tutto il mondo, incluso il premio Oscar come miglior film straniero su cinque nomination.
Nel 2013, infine, la giuria di Cannes elegge come miglior film del Festival un'altra pellicola per la quale il successo festivaliero avrà una fortissima eco in tutto il mondo, tanto da essere definita fin da subito come uno dei maggiori capolavori del cinema contemporaneo: si tratta de La vita di Adele, il ritratto estremamente intenso e coinvolgente di una ragazza, la Adele del titolo (Adèle Exarchopoulos), alle prese con una difficile "educazione sentimentale", ma al contempo desiderosa di "divorare" la vita in tutte le sue forme, a partire dall'amore saffico per la conturbante Emma (Léa Seydoux), giovane pittrice dalla chioma azzurra. Sceneggiato e diretto dal regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche, La vita di Adele è caratterizzato da una "istanza di realismo" che si impone come la sua inconfondibile cifra stilistica e narrativa, ma pure come una precisa scelta etica, nell'ottica di un cinema sempre più volto a catturare la "verità" dell'esistenza e delle passioni umane; una tendenza riscontrabile in maniera analoga in Amour e nel vincitore del Festival del 2014, Winter Sleep. Nella speranza, ovviamente, che una fascia quanto più possibile ampia e variegata di pubblico possa "prendere nota" e sfruttare la visibilità concessa da una Palma, un Leone o un Orso d'Oro per avvicinarsi a un cinema in grado di aprire davanti ai nostri occhi nuovi ed inediti universi... ma allo stesso tempo, magari, di raccontarci anche qualcosa su noi stessi.