2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick ha rappresentato una svolta epocale per il cinema nelle sue accezioni artistiche, tecnologiche e di ragionamento sul testo. Uno di quei film di cui si dice ci sia stato un prima e un dopo, innovatore in primis per il suo genere di appartenenza, come accadeva ad ognuno di quelli a cui il cineasta newyorkese si approcciava. Pur essendo, infatti, un perfetto film fantascientifico, ne è anche una sua rielaborazione piuttosto decisa e pressoché totalitaria.
La pellicola è stata una svolta soprattutto per la carriera di Kubrick stesso, che grazie ad essa si aggiudicò il suo unico Oscar su tredici candidature, anche se "solo" per gli effetti speciali. Di più, il capolavoro del 1968 è probabilmente anche la massima espressione (insieme a Shining se vogliamo essere assolutamente corretti) di una tipica tendenza della poetica kubrickiana riscontrabile in tutti i suoi film, ma che fino a quel momento non è mai realmente esplosa: la sua attrazione per il fantastico. Per "fantastico" ci riferiamo all'accezione che lo definisce come lo "shock tra il reale e l'immaginario" e ciò è utile nella misura in cui esclude il "meraviglioso", luogo ove tutto può succedere e dunque nulla può sorprendere.
L'accesso a questa dimensione, in termini di racconto audiovisivo, è per Kubrick presupposto fondamentale alla rappresentazione del rapporto tra l'uomo, il suo essere primitivo e l'universo che vive. Evenienza che nel suo totale compimento e dunque superamento può avvenire solo in tale contesto. E voi strabuzzate gli occhi, ma abbiate fede, proviamo a capirci.
La dimensione di mezzo
Fin dall'inizio della sua carriera (ci mettiamo in mezzo anche Paura e desiderio) Kubrick si è occupato di oltrepassare i confini cinematografici dei generi a cui si approcciava (guerra, dramma, noir, storico e thriller) in modo da piegarli ad una sua personalissima ricerca, pur mantenendo il sacro impegno del lavoro sul mezzo audiovisivo.
Ecco, essa vive, a ben vedere, di una contraddizione piuttosto evidente. Per analizzare l'uomo e i suoi più grandi dilemmi, come il controllo sulla natura e sull'ambiente, l'etica e la morale dietro la violenza e il rapporto con le mille accezioni della figura paterna, Kubrick aveva infatti bisogno di ricorrere all'intervento di qualcosa oltre la realtà. L'uomo, per rivelare se stesso, necessita di un elemento che gli cambi il mondo o, quanto meno, che lo sorprenda un po'. Dello shock, che però doveva essere causato da qualcosa che non si allontanasse troppo da una realtà comprensibile, altrimenti la spiegazione non avrebbe avuto più senso. Sarebbero cambiate le regole.
Capite bene, dunque, che il rapporto con il fantastico non poteva che essere problematico. Anche dopo 2001: Odissea nello spazio (con la sola eccezione di Barry Lyndon) l'elemento a esso riferibile è stato sempre adoperato come un mezzo per spiegare altro, un escamotage utile ad avanzare nella ricerca, quando legato ad una trovata scientifica (il trattamento di Alex in Arancia meccanica) quando ad una contestuale (gli equivoci che muovono il viaggio del dott. Harford in Eyes Wide Shut, i casi della campagna militare di Full Metal Jacket oppure le esagerazioni parodistiche del Dottor Stranamore). Insomma, un qualcosa al servizio del realismo, che è da dove parte la ricerca antropocentrica e, banalmente, condizione essenziale perché esista l'altra dimensione. Ying e Yang.
2001: Odissea nello spazio. I segreti del "più grande film di fantascienza"
L'approdo su Giove
Ora (per chi ha avuto la pazienza di leggere fino a qua), questa scelta porta inevitabilmente a cambiare la rotta stessa dell'indagine kubrickiana, ma anche del suo rapporto con la grammatica cinematografica.
In 2001: Odissea nello spazio si parte dall'invasione dell'elemento immaginario (il monolite), che non solo dà modo alla Natura realistica (ominida, scimmiesca) di rivelarsi, ma ne diventa la sua forza motrice, causa e scopo di un'evoluzione che ispira l'andamento dell'umanità, la quale è altrimenti destinata ad essere la fautrice della sua stessa morte. La violenza in Kubrick deve essere sempre direzionata da qualcosa di superiore per non essere autodistruttiva.
Ancora, il mondo (realtà) è già morente e l'universo (immaginario) è lo spazio in cui l'uomo è costretto a muoversi per continuare ad esplorare (ricordate il passaggio osso-astronave?) e dunque anche il regista. Siamo nella meraviglia pura, lo stesso anno 2001 è un richiamo a questa dimensione utopica, irreale, impossibile (1000 in Arabia simboleggia ciò che non è numerabile e 1001 evoca l'infinito ripetersi). La missione diventa trovare il realismo per accedere al fantastico, la nuovo Pianeta da esplorare.
Come fanno Frank e David, Kubrick cancella il suo passato per cominciare la sua odissea personale, portando con sé le sue conoscenze cinematografiche e il sapere scientifico (Sir Arthur Charles Clarke), strumenti per trovare una strada e districarsi in questo viaggio esistenziale/spaziale/audiovisivo.
Se prima il suo credo era quello di oltrepassare i confini di genere, ora li innalza, li solidifica, ne fa tracce di un sentiero riconoscibile. La concezione stessa della sua ricerca dell'umanità diventa l'antitesi dell'antropocentrismo, che è di solito il modus operandi del cinema e ancor di più del cinema di fantascienza, ma è tutto il contrario di ciò che la scienza (senza fanta) non perde occasione di smentire, sin dai tempi di Galileo. Realismo come mezzo.
Capire l'uomo vuol dire capire l'universo e viceversa, va bene, ma la formula non è rintracciabile né nell'uno né nell'altro. Si trova nel fantastico.
Il superuomo
Il viaggio che fa Kubrick è dunque incoerente con il suo obiettivo, dal momento che nel suo raccontare l'ascensione dell'umanità verso qualcosa di divino ci dice che per capirne il senso non si può cercare né in Dio né nell'uomo, ma nel frutto del loro rapporto, o meglio, dello shock, del fantastico. E questo frutto è l'osso, l'astronave e la macchina.
Ecco che qui si riscontra l'apporto di Clarke, che con Kubrick condivide la cieca credenza nella capacità predittiva della cibernetica, ovvero quel ramo della scienza che si prefigge lo studio e la realizzazione di dispositivi capaci di simulare le funzioni del cervello umano, autoregolandosi per mezzo di segnali di comando e di controllo in circuiti elettrici ed elettronici o in sistemi meccanici. Dagli automi alla gelida prospettiva di un mondo dominato da macchine super intelligenti, che il regista si preoccuperà di trasformare in romantica e malinconica. Perché esse potranno anche avere un intelletto sconfinato, ma se ereditano anche le emozioni, sono spacciate.
Hall-9000 (che in origine doveva essere Atena, nata dal cervello indovinate di chi), il computer incaricato di controllare il viaggio verso Giove è di fatto l'unico elemento umano kubrickiano presente nel film. Non gli scienziati, non gli esploratori, non gli ominidi, né tanto meno il mega capoccione alla fine. Solo in esso infatti si manifesta il dolore che nasce dalla conoscenza, il dubbio nell'uso della violenza, la paura di morire e di perdere la propria memoria, il proprio essere. Lui è appassionato di scacchi, lui ha la voce più ricca e significativa. La sua morte è la morte dell'umanità, la morte necessaria perché l'umanità progredisca, com'è la morte dell'ominide all'inizio del film. L'umanità è il prodotto dell'uomo quando fantastica su Dio, ecco perché è la dimensione dov'è possibile trovarla. Da questo nasce il suo interesse per l'intelligenza artificiale, forse.
In 2001: Odissea nello spazio, il primo film fantastico del cineasta newyorkese, si sentenzia la morte dell'umano per opera dell'uomo, che è anche il suo superamento. Un modo per accedere al super uomo, che è a sua volta null'altro che un nuovo universo, monolite, Dio e padre, pronto dunque a ricominciare il giro. Così parlo Zarathustra, secondo Kubrick, sulle note di Strauss.